Una storia che non smette di interrogare l’Italia torna sullo schermo e nella coscienza civile. Con la miniserie di Stefano Sollima, l’ombra lunga del Mostro di Firenze riemerge dai fascicoli e dalle ferite. Al centro, lo sguardo lucido dell’ex magistrata Silvia Della Monica: per lei, quegli omicidi furono il segno di una violenza ostinata contro le donne, non un orrore senza movente.
Un racconto che riparte dall’origine
La miniserie Il Mostro debutta oggi, 22 ottobre 2025, su Netflix in quattro episodi: un viaggio all’indietro fino al 21 agosto 1968, quando un duplice omicidio a Signa seminò il primo, inquietante indizio. L’uscita segue l’anteprima alla Mostra di Venezia 2025 e concentra l’attenzione sulle prime piste, evitando soluzioni forzate e ripartendo dalla stagione delle intuizioni investigative rimaste in ombra. Lo confermano la scheda ufficiale della piattaforma e le anticipazioni di agenzia sulla scelta di campo del regista.
Nelle settimane che hanno preceduto la messa in onda, Della Monica ha riconosciuto alla serie un merito preciso: aver restituito quel contesto senza compiacimento, mostrando la trama di patriarcato e pregiudizi dentro cui maturarono le indagini, e la sofferenza delle vittime prima di ogni altra cosa. È una valutazione che abbiamo raccolto anche nelle interviste pubblicate dalla stampa nazionale, dove l’ex pm sottolinea la scelta di non spettacolarizzare e la centralità del movente di genere.
Violenza contro le donne: la chiave che non volevamo vedere
Il cuore del ragionamento è semplice e duro: l’aggressione sistematica al corpo femminile. Oggi lo definiremmo senza esitazioni un ciclo di femminicidi, un odio sedimentato che attraversa anni e vite. Della Monica, in più occasioni, ha ricordato come quella lunga sequenza fosse orientata principalmente contro le donne, dentro un ambiente sociale patriarcale che non riconosceva loro valore, e come tale lettura illumini il senso storico della vicenda più della caccia all’ennesimo colpevole provvisorio. È una prospettiva che il dibattito culturale più recente ha rimesso al centro.
La stessa impostazione guida anche Sollima, che ha spiegato la necessità di “ricominciare dall’inizio” per correggere il peso di tesi precostituite e di un “peccato originale” nelle prime letture del caso. È in quella materia viva — le origini, la “pista sarda”, il clima sociale — che la serie sceglie di muoversi. Lo ha ribadito il regista al Lido, indicando la volontà di interrogare gli snodi iniziali prima di tutto, con una ricostruzione che rifugge scorciatoie e proclami.
Gli anni delle indagini e la grammatica dell’assenza
Chi ricorda quei giorni sa quanto l’inchiesta fosse una lotta contro il tempo e contro la mancanza di strumenti. Niente Dna, nessun archivio digitale, procedure sulla scena del crimine ancora in divenire, intercettazioni complesse da attivare e gestire: una realtà quasi artigianale che rendeva ogni passo più fragile. Della Monica lo ha ricordato senza enfasi, riportando il peso concreto di quella fatica quotidiana, tra errori inevitabili e una pressione pubblica crescente che chiedeva risposte immediate dove le prove non bastavano.
Quel vuoto di mezzi si traduceva talvolta in iniziative studiate per provocare una reazione dell’assassino. Eppure, persino quando la tattica funzionava — come nel caso di una telefonata sospetta in ospedale — mancavano le condizioni tecniche per cristallizzare l’indizio. È il paradosso di un’epoca investigativa a cavallo tra vecchio e nuovo, racchiuso nel racconto della stessa ex pm, che ci consegna la misura del limite senza trasformarlo in alibi.
Pista sarda e una pistola che non si è mai fatta trovare
Se c’è un filo che attraversa l’intera inchiesta è quello della Beretta calibro 22 con munizioni Winchester “H”, arma chiave mai ritrovata. Gli accertamenti balistici collegarono i delitti degli anni Ottanta al duplice omicidio del 1968 a Signa, facendo affiorare quella che gli investigatori chiamarono “pista sarda”. La domanda rimasta sospesa — come l’arma — è: come si passa dal primo delitto alle esecuzioni successive? Una questione che, ancora oggi, definisce l’ossatura del mistero.
Proprio su quell’inizio, la miniserie insiste: l’ipotesi di un legame profondo con le radici del caso, la comunità di arrivo in Toscana, i rapporti familiari e la spirale di dominio maschile. No a verità preconfezionate, sì al lavoro sulle origini e su un contesto in cui il corpo femminile è bersaglio, mentre l’uomo — spesso — è colpito perché d’ostacolo. È la lettura che emerge con forza dai materiali e dalle testimonianze citate, non un espediente teatrale.
Baccaiano: il tranello mediatico e una telefonata mai registrata
Il 19 giugno 1982, in località Baccaiano, la scia di sangue si incrocia con un tentativo audace: diffondere, d’intesa con i familiari, la notizia che il ragazzo ferito fosse riuscito a parlare, per innescare un errore dell’assassino. La reazione arrivò — una chiamata sospetta all’ospedale — ma non poté essere fissata su nastro, e così la pista evaporò nel brusio delle congetture. Quell’episodio racconta la tenacia e l’impotenza di un’indagine appesa a strumenti imperfetti.
Anche per Baccaiano, i bossoli ricondussero all’arma ricercata, rinsaldando il collegamento con gli omicidi precedenti e con il 1968. È qui che il quadro inizia a farsi sistema: colpi d’arma da fuoco, attacco primario alla donna, e — quando il tempo e il luogo lo permettevano — mutilazioni mirate. Un metodo costante che la cronaca ha collegato agli altri duplici delitti di quegli anni, componendo una mappa coerente, e tragica, del modus operandi.
Una busta, una ferita: settembre 1985
Due giorni dopo l’ultimo delitto, il 10 settembre 1985, in Procura a Firenze arriva una busta indirizzata a Silvia Della Monica. Dentro, un lembo di seno della turista francese Nadine Mauriot. Quella lettera — recapitata dall’area di San Piero a Sieve — è l’unico messaggio attribuibile con certezza all’autore dei delitti e sancisce un contatto diretto, macabro, con un magistrato donna. È più di una sfida: è la conferma plastica dell’odio rivolto alle vittime.
Il gesto non riaprì solo una ferita personale; ribadì l’ossessione per il corpo femminile, tornando ad oltraggiarlo anche dopo la morte. Per chi indagava, fu un richiamo brutale alla realtà di un nemico invisibile e insieme comunicativo, capace di trasformare un reperto in messaggio. Un atto che, nel suo linguaggio, completava la traiettoria ideologica di quelle uccisioni: punire la donna, annientarla, cancellarne il valore.
La serie e la memoria pubblica: cosa cambia oggi
Raccontare oggi significa anche riposizionare il caso nella memoria collettiva. La serie punta sulle origini, sul contesto patriarcale e sulla macchina investigativa dei primi anni, riportando al centro ciò che a lungo è stato marginale. È un approccio che diversi osservatori hanno salutato con favore: tra loro il legale di alcune famiglie delle vittime, che ha definito la ricostruzione rigorosa nei dettagli e onesta nelle ambizioni narrative, senza pretendere verità definitive dalla fiction.
Intorno al Mostro di Firenze si sono stratificate teorie, depistaggi e ipotesi più o meno documentate — dalle piste “sarde” alle letture di gruppo — che la stampa internazionale continua a ripercorrere con prudenza. Rimettere ordine non è cancellarle, ma separare il verificabile dal verosimile. E ripetere, ancora, che una Beretta calibro 22 mai ritrovata e otto duplici omicidi restano l’asse fattuale da cui partire.
Domande che ci arrivano dai lettori
Quante vittime e in quale arco di tempo? Diciassette anni di paura, dal 1968 al 1985, e sedici vittime uccise in otto duplici omicidi. Il filo conduttore è la Beretta calibro 22 con munizioni Winchester “H”, mai rinvenuta. Le cronologie ricostruite dalla stampa e dagli atti giudiziari convergono su questi numeri, che definiscono la portata del caso nella storia italiana recente.
Perché si parla di femminicidio seriale? Perché il bersaglio privilegiato è la donna, colpita e, quando possibile, mutilata. È una lettura maturata nel tempo e ribadita da chi indagò allora, che invita a leggere i delitti come manifestazione di un odio strutturale, radicato in un ambiente sociale segnato dal dominio maschile. Non un’etichetta di moda, ma una chiave storica e culturale che aiuta a capire la trama profonda della violenza.
Che cos’è la “pista sarda” e perché conta? È il percorso investigativo che collega il duplice omicidio del 1968 agli altri delitti tramite la stessa arma. Quella traccia riporta a comunità e legami familiari arrivati in Toscana dalla Sardegna, e anima il cuore della serie. Non offre certezze sul nome dell’assassino, ma spiega come si consolidò il collegamento balistico che ha cambiato la storia dell’indagine.
Che ruolo ebbe Silvia Della Monica? Fu tra i primi magistrati a intuire che il 1968 non era un cold case isolato, ma la radice della catena di omicidi. Nel 1985 ricevette una busta con un lembo di seno dell’ultima vittima, gesto considerato autenticabile come proveniente dall’autore. In più occasioni ha descritto limiti e scelte di allora, rivendicando il rispetto delle vittime e il rifiuto della spettacolarizzazione.
Cosa racconta la serie di Sollima e quando si vede? Quattro episodi su Netflix dal 22 ottobre 2025, con un focus sulle origini e sulle prime piste, dalla “pista sarda” al legame balistico. La produzione è stata presentata a Venezia e sceglie attori poco noti per cercare autenticità, riportando il pubblico dentro la Toscana degli anni Sessanta e Ottanta senza forzare soluzioni giudiziarie che non esistono.
Perché Baccaiano è un passaggio chiave? Perché lì si tentò un tranello mediatico per smuovere il killer: una finta indiscrezione su un ragazzo che avrebbe parlato. La reazione arrivò, ma le tecnologie dell’epoca non permisero di fissarla come prova. È l’emblema di un’indagine in equilibrio tra coraggio e limiti tecnici, e di una stagione in cui si sperimentava mentre si cercava di salvare vite.
Uno sguardo finale: la responsabilità della memoria
Raccontare oggi significa chiedersi cosa resti oltre l’enigma. Resta la necessità di chiamare le cose con il loro nome — violenza di genere — e di riconoscere che una società può diventare complice quando accetta che il corpo femminile sia campo di punizione. Nel nostro lavoro, preferiamo attraversare la materia con rispetto: riannodare fatti, restituire dignità, evitare di trasformare il dolore in pressione mediatica. È la sola strada per non perdere di vista le persone.
La miniserie spinge a tornare dove tutto è cominciato: alle radici culturali, prima che ai dettagli di cronaca. Lì si forma la lente che rende più nitide le storie delle vittime, i limiti degli strumenti, gli errori possibili. Lì si comprende perché molte risposte manchino ancora e perché cercarle abbia senso. Non per aggiungere clamore, ma per tenere accesa — con misura — la responsabilità di ricordare, fino a quando la giustizia non avrà parole definitive.
