La formula è rimasta lì, appuntata come una spilla sulla giacca della diplomazia iraniana: «tutte le opzioni sul tavolo». Non è un vezzo retorico: è il messaggio che Teheran ha ripetuto dopo i bombardamenti di giugno contro i suoi siti nucleari e che oggi pesa ancora sul confronto con Washington. I raid su Fordow, Natanz ed Esfahan hanno ridisegnato il perimetro della crisi; eppure la postura iraniana non si è sciolta, si è irrigidita. Nel frattempo, lo scenario è cambiato: le sanzioni ONU sono state ripristinate a fine settembre e l’economia interna sente i morsi delle restrizioni.
Se guardiamo ai fatti più recenti, la linea di Teheran alterna aperture tattiche e scatti di orgoglio. Da un lato, la disponibilità a valutare una proposta «equa ed equilibrata» sul nucleare. Dall’altro, la decisione di azzerare l’intesa di cooperazione con l’Agenzia atomica dell’ONU firmata a settembre. Due movimenti opposti nella stessa settimana simbolica per il dossier: lo snapback delle sanzioni è già in vigore e le verifiche dell’IAEA tornano in difficoltà. Un equilibrio instabile che chiede sangue freddo e memoria lunga.
Dai bombardamenti di giugno alla strettoia diplomatica di ottobre
A giugno gli Stati Uniti hanno colpito tre infrastrutture chiave del programma nucleare iraniano. L’agenzia atomica dell’ONU ha confermato gli attacchi sui siti di Fordow, Natanz ed Esfahan; poche ore dopo il ministro degli Esteri Abbas Araqchi ha parlato di azione «oltraggiosa» e ha avvertito che l’Iran «si riserva tutte le opzioni». Nel giro di giorni, tra lanci di missili e contromisure, è emerso con chiarezza che i bombardamenti non hanno cancellato il problema, lo hanno solo trasformato in un braccio di ferro più largo.
Quattro mesi dopo, l’asse della crisi si è spostato dai radar alla diplomazia coercitiva. Il meccanismo E3 per il ripristino automatico delle sanzioni ONU (lo snapback) è partito a fine agosto, ha superato gli ostacoli in Consiglio di Sicurezza ed è atterrato tra il 27 e il 28 settembre con la reintroduzione delle misure sospese dal 2015: embargo sugli armamenti, limiti su attività nucleari e missilistiche, restrizioni finanziarie. Mosca le considera illegittime; per Teheran sono l’ennesimo cappio.
Cosa significa davvero «tutte le opzioni»
L’espressione non è vuota. Nelle scorse settimane i Guardiani della Rivoluzione hanno lasciato intendere che la gittata dei missili può crescere «fino a dove necessario», mentre sul piano marittimo il dibattito interno ha rispolverato – senza tradursi in ordini operativi – l’ipotesi di usare lo Stretto di Hormuz come leva di pressione. Il Parlamento ne ha discusso a giugno; poi, a luglio, esponenti di spicco hanno chiarito che non esisteva una decisione definitiva. Segnale: deterrenza, non automatismi.
La lista delle “opzioni” include anche domini meno visibili: cyber, proiezione tramite reti di alleati regionali, diplomazia del no dentro le organizzazioni internazionali. Ma il punto politico è un altro: la formula serve a ricordare che, dopo i raid di giugno, Teheran non accetta cornici negoziali percepite come imposizioni. In questo contesto, l’eventuale chiusura di Hormuz non è un automatismo: l’Unione Europea l’ha definita una mossa pericolosa che danneggerebbe tutti e le analisi di mercato suggeriscono che una chiusura totale resti improbabile.
La morsa delle sanzioni e gli effetti sull’economia
Lo snapback sta già lasciando tracce nella vita quotidiana iraniana: taglio di ossigeno finanziario, rischio di recessione, prezzi che corrono. I report economici più aggiornati disegnano uno scenario di rallentamento e tensioni sociali mentre gli attori esteri riposizionano forniture e canali di pagamento. A questo si sommano le misure settoriali europee e statunitensi che, insieme al ritorno delle sanzioni ONU, producono un effetto cumulativo.
Sul fronte politico, i partner europei hanno scandito passaggi e condizioni – accesso pieno dell’IAEA, chiarezza sugli stock di uranio ad alto arricchimento, impegni verificabili – prima del ripristino delle misure. Tra avvertimenti e scadenze, Parigi aveva lasciato intendere che la finestra per evitare il ritorno delle sanzioni si stava chiudendo. Il dado è tratto; ora l’efficacia dipenderà da controlli e coesione internazionale.
Negoziato possibile? Segnali incrociati
C’è un filo di dialogo, seppur sottile. L’11 ottobre Araqchi ha detto che Teheran prenderebbe in considerazione una proposta americana «equa ed equilibrata». Poche giornate dopo, però, l’Iran ha dichiarato nullo l’accordo di cooperazione con l’IAEA raggiunto a settembre per far ripartire ispezioni e monitoraggio: un colpo al lavoro dell’Agenzia in un momento in cui gli osservatori chiedono più trasparenza, non meno. Due mosse che riassumono l’ambivalenza del momento.
In controluce si intravedono anche le pressioni domestiche: una leadership che deve tenere insieme sicurezza, economia, consenso. A settembre, dal podio dell’Assemblea generale, il presidente Masoud Pezeshkian ha ribadito che l’Iran non cerca la bomba; ma le capitali occidentali vogliono prove, non soltanto dichiarazioni. E con le sanzioni riattivate, ogni margine negoziale verrà testato al millimetro.
Rischi immediati: rotte, energia, stabilità regionale
Ogni crisi intorno al Golfo Persico parla anche di navi e barili. Lo Stretto di Hormuz è il collo di bottiglia dell’energia mondiale: lo sanno gli operatori, lo sanno i governi. Per ora, la discussione iraniana non si è tradotta in un ordine di chiusura, e i prezzi – dopo picchi emotivi – hanno segnalato un ritorno alla prudenza, letta dagli analisti come scetticismo sull’eventualità di un blocco integrale. Ma basta poco per alterare equilibri e rotte.
La stessa geografia delle alleanze in Medio Oriente resta increspata. Le capitali del Golfo cercano di diversificare appoggi e fornitori; Mosca ha bollato come illegali le sanzioni reintrodotte, posizionandosi con Teheran; europei e Stati Uniti puntano sulla pressione multilaterale e su un percorso di verifiche che riporti l’IAEA dentro gli impianti. È una scacchiera su cui ogni mossa, anche simbolica, può accorciare o allungare la distanza dallo scontro aperto.
Cosa osserviamo adesso
Nel breve periodo, i cardini sono tre. Primo: l’impatto interno dello snapback – una variabile che può spingere la leadership verso compromessi o, al contrario, verso un irrigidimento identitario. Secondo: le ispezioni dell’IAEA, oggi appese a un filo dopo l’annullamento dell’intesa di settembre. Terzo: l’evoluzione della postura militare iraniana, tra retorica e capacità effettive, inclusa l’eventuale estensione della gittata missilistica. Tutti tasselli da seguire con attenzione.
In questo quadro, la frase «tutte le opzioni sul tavolo» continua a funzionare come una lente. Non è solo una minaccia: è il modo in cui Teheran tiene insieme deterrenza, orgoglio nazionale e margini di trattativa, ricordando agli interlocutori che l’escalation ha un costo per tutti. Ed è anche un invito implicito a costruire una via d’uscita credibile, con garanzie verificabili e un perimetro chiaro su ispezioni, arricchimento e sanzioni.
