Roma ascolta il bisogno di chi convive con la dermatite atopica: una comunità vasta, circa 3 milioni di persone, segnata da prurito ostinato e notti spezzate. Oggi quelle voci chiedono tutele certe e accesso equo alle cure, puntando all’inserimento nei Lea e nel Piano nazionale della cronicità.
Un’urgenza ignorata
A Montecitorio, il 22 ottobre, è andato in scena un incontro dal titolo eloquente: “Dermatite atopica: i pazienti chiedono riconoscimento e tutele”. L’iniziativa, promossa dalla deputata Ilenia Malavasi (XII Commissione Affari sociali), ha rimesso al centro una patologia infiammatoria cronica che accompagna molte vite dall’infanzia all’età adulta, minando relazioni, sonno e lavoro. Accanto all’Associazione nazionale dermatite atopica (ANDeA), erano presenti ADOI, SIDAPA e SIDeMaST. L’obiettivo è chiaro: riconoscimento ufficiale della cronicità, ingresso nei Lea e nel Piano delle cronicità, tutele sanitarie, sociali e finanziarie davvero esigibili.
Durante l’evento è partita una “call to action” nazionale: una raccolta firme aperta ai cittadini per sostenere il percorso istituzionale. È un gesto semplice che tiene insieme responsabilità civica e diritto alla cura, e che si affianca a un lavoro di rete con società scientifiche e clinici. L’adesione si esprime attraverso il sito dell’associazione e dà forza a istanze già strutturate in un Manifesto, con una campagna pensata per durare mesi e monitorare in tempo reale la partecipazione. Un invito a trasformare il disagio quotidiano in una pressione costruttiva.
Perché l’inclusione nei Lea e nel Piano delle cronicità non può più attendere
La richiesta politica è netta: la dermatite atopica è riconosciuta come patologia infiammatoria cronica della pelle, ma non rientra ancora nei Lea né nel Piano nazionale della cronicità. L’inclusione, ha sottolineato Malavasi, renderebbe omogenea la presa in carico, uniformerebbe i piani terapeutici e migliorerebbe i tempi della diagnosi sul territorio. In Parlamento è stata depositata un’interrogazione al ministro della Salute per accelerare l’iter. Equità d’accesso e coperture adeguate non sono uno slogan: senza cornici nazionali chiare, restano differenze tra regioni e percorsi frammentati.
A questa visione si affianca un nodo strategico: servono risorse non solo per i farmaci, ma per l’intero percorso assistenziale, dall’educazione terapeutica al supporto psicologico, fino ai follow-up. Il riconoscimento nei Lea è la condizione che consente di sostenere economicamente prestazioni e terapie, ma va accompagnato da stanziamenti che permettano a ogni paziente di trovare risposte coerenti e tempestive, indipendentemente dal codice di avviamento postale. È una domanda di civiltà prima ancora che di budget.
La spinta dei pazienti: voci e responsabilità condivise
Mario Coccioli, presidente ANDeA, ha dato forma al sentimento comune raccolto in anni di ascolto: la dermatite atopica pesa ogni giorno, ma non è ancora riconosciuta come malattia invalidante. Da qui la decisione di portare il tema nell’aula pubblica, con una chiamata collettiva che non si limita alla denuncia. Il percorso verso la raccolta firme nasce da un Manifesto che sintetizza le richieste prioritarie dei pazienti, elaborato con metodo e confronto. L’obiettivo è trasformare storie individuali in leva per un cambiamento misurabile.
Sul sito ufficiale di ANDeA la campagna viene raccontata senza giri di parole: prurito incessante, pelle che brucia, notti insonni. Sei richieste alle Istituzioni per garantire riconoscimento come malattia cronica e invalidante, percorsi uniformi, approcci terapeutici personalizzati, tutele economiche, formazione dei clinici e persino l’istituzione di una Giornata nazionale. La raccolta è stata lanciata il 22 ottobre e invita chiunque a sostenere il cambiamento con nome e cognome. Un atto semplice, che vale come promessa reciproca.
Numeri che pesano su famiglie, lavoro e conti pubblici
Il danno non è solo clinico: oltre la metà dei pazienti riferisce una qualità di vita compromessa e quasi due su tre vivono la malattia come un ostacolo nelle attività quotidiane. Nelle forme da moderate a gravi si perdono in media 9 giorni lavorativi l’anno, con ulteriori 21 giorni di produttività ridotta; lo stigma sociale amplifica l’isolamento e logora relazioni e autostima. Sono cifre che raccontano settimane sottratte al vivere, non semplici statistiche.
Sul piano economico, Matteo Scortichini (CEIS-EEHTA, Università di Roma Tor Vergata) ha richiamato una stima di circa 7mila euro l’anno per paziente tra costi a carico del SSN, spese dirette e perdita di produttività; in un’analisi su forme moderate-severe il costo medio supera i 4mila euro con oltre il 60% legato alla produttività persa. Da qui una proiezione: in Italia la dermatite atopica può generare fino a 20 miliardi l’anno, metà a carico pubblico. Già nel 2022, ricerche coordinate da Francesco Saverio Mennini quantificavano costi medi superiori a 4mila euro, con punte fino a 20mila.
Terapie: una stagione nuova, da rendere accessibile ovunque
Fino al 2017 chi necessitava di trattamenti sistemici poteva contare quasi solo su ciclosporina e cortisonici, opzioni spesso poco efficaci e con effetti collaterali importanti. Negli ultimi anni, grazie alla ricerca e alla collaborazione tra associazioni e comunità scientifica, il panorama terapeutico si è arricchito di soluzioni innovative più mirate e meglio tollerate. È cambiato il passo, e con esso le aspettative di controllo della malattia e di recupero di una vita più piena.
Ma l’innovazione non basta se l’accesso è diseguale: senza Lea aggiornati e percorsi chiari, restano differenze regionali, liste d’attesa e barriere economiche. Studi recenti hanno inoltre valutato sostenibilità ed efficacia delle nuove opzioni nei quadri moderati-severi, segnalando un rapporto costo/beneficio competitivo quando le terapie sono inserite in programmi strutturati di presa in carico. La cura migliore è quella che arriva per tempo, dove serve, a chi ne ha bisogno.
Un Piano in cantiere e il nodo delle risorse
Nelle stesse ore in cui i pazienti chiedono riconoscimento, il Piano nazionale della cronicità è al centro di un aggiornamento: secondo analisi indipendenti, la bozza inviata alla Conferenza Stato-Regioni punta in alto ma, per ora, non prevede fondi dedicati e lascia interrogativi su tempi e monitoraggio. L’associazione Salutequità ha sollecitato un cronoprogramma chiaro e risorse certe per evitare che il documento resti sulla carta. Senza benzina, il motore della presa in carico non parte.
Sullo sfondo, il tema dell’aggiornamento dei Lea: nel 2025 il Ministero ha presentato nuovi schemi di DPCM e alcune condizioni—come la fibromialgia nelle forme più severe—sono state indicate nelle bozze, a testimonianza di un processo in movimento e di attese elevate da parte dei cittadini. Il dibattito pubblico mostra quanto sia necessario rendere trasparenti criteri, tempi e impatti, perché ogni decisione incide direttamente sul quotidiano di milioni di persone.
Come sostenere la raccolta
La campagna di ANDeA è pensata per essere inclusiva: informazione chiara, linguaggio comprensibile, obiettivi verificabili. Sul portale dell’associazione è possibile aderire alla raccolta firme, leggere il testo integrale e condividere le sei richieste alle Istituzioni. Firmare significa dire: “ti vedo, ti ascolto, mi prendo una parte di responsabilità”. È un gesto che pesa quando diventa abitudine collettiva.
La mobilitazione non è un fuoco di paglia: la raccolta resterà attiva per almeno sei mesi, con un monitoraggio continuo dell’adesione dei cittadini. Intorno, una rete ampia di dermatologi, allergologi e clinici ospedalieri che ha già dato disponibilità a collaborare per costruire percorsi più uniformi e appropriati. La forza di questa iniziativa è nella continuità, non nell’episodio singolo.
Domande che sentiamo ogni giorno
La dermatite atopica può davvero essere considerata una malattia cronica invalidante? La cronicità è un dato clinico consolidato e, per molti, l’impatto funzionale è rilevante: sonno disturbato, dolore, difficoltà lavorative e scolastiche. Il punto è il riconoscimento formale nei Lea e nel Piano delle cronicità, che oggi manca e che i pazienti chiedono con una raccolta firme dedicata. L’inclusione permetterebbe percorsi e tutele uniformi, oltre a coperture economiche definite lungo l’intero iter di cura, dalla diagnosi ai controlli periodici.
Perché servono fondi oltre ai farmaci? Perché la malattia non si esaurisce nella prescrizione: educazione terapeutica, supporto psicologico, visite di follow-up, accesso rapido ai centri specialistici e gestione delle riacutizzazioni richiedono organizzazione e risorse. Senza finanziamenti dedicati, l’innovazione rischia di restare sulla carta. Le analisi più recenti sul Piano della cronicità hanno proprio evidenziato la necessità di budget e tempi certi per evitare disuguaglianze territoriali e percorsi a ostacoli.
Le nuove terapie cambiano davvero la vita? Per molte persone sì, specie nei quadri moderati-severi. Negli ultimi anni si sono affermate opzioni più mirate e meglio tollerate rispetto al passato. Ma il beneficio individuale dipende dall’accesso tempestivo, dalla continuità della presa in carico e da un percorso costruito con lo specialista. Anche la sostenibilità economica è stata oggetto di ricerche, che indicano un profilo favorevole se le terapie sono incardinate in modelli organizzativi adeguati.
Una strada che chiede coraggio e coerenza
Di fronte alle storie ascoltate alla Camera, la statistica cede il passo alle immagini: mani che cercano sollievo, genitori che aspettano visite, giovani che vorrebbero solo dormire una notte intera. Il riconoscimento nei Lea e nel Piano delle cronicità non è un favore, è una misura di giustizia. La raccolta firme accende un percorso, ma spetta alle Istituzioni trasformarlo in decisioni operative e verificabili.
Nel nostro lavoro quotidiano torniamo sempre qui: al legame fra responsabilità pubblica e vite private. La dermatite atopica non chiede pietà, chiede pari dignità: accesso alle cure, continuità assistenziale, sostegno alle famiglie. È un impegno che riguarda tutti, dalla politica alla clinica, fino a ciascuno di noi. Perché prendersi cura è, prima di tutto, non voltarsi dall’altra parte.
