Il 22 ottobre 2025, nella Sala Mechelli del Consiglio regionale del Lazio, la voce della balbuzie si è presa lo spazio che merita. Al convegno promosso da Associazione LEA e Psicodizione Onlus, la psicologa Chiara Comastri ha chiesto strumenti concreti: scuola preparata, sanità formata, lavoro capace di valorizzare il talento.
Una richiesta di concretezza
Le parole di Chiara Comastri, responsabile scientifica di LEA – Libera l’Espressione Autentica, hanno attraversato la sala con la forza delle urgenze rimandate: i bambini e i ragazzi che balbettano faticano a sentirsi accolti e visti. Servono protocolli scolastici chiari, formazione mirata per chi opera nella sanità, attenzione autentica nei luoghi di lavoro affinché nessuna competenza vada dispersa. Non un auspicio, ma una rotta operativa, ribadita nell’incontro organizzato da LEA e Psicodizione in occasione della Giornata internazionale di consapevolezza sul disturbo del linguaggio, come riportato dall’agenzia Adnkronos e ripreso da testate nazionali.
Dietro ogni esitazione c’è spesso una strategia di sopravvivenza: chi balbetta prova a sostituire parole, a evitare frasi, a ritrarsi un passo prima del giudizio. È un peso silenzioso, fatto di attese non dette e opportunità trattenute. Dare voce significa rendere abitabili i contesti, a partire dalla scuola, e passare dal “se” al “come”: non se intervenire, ma come farlo bene e per tempo. È il senso profondo del messaggio portato da Comastri al convegno romano, dedicato a trasformare la consapevolezza in pratiche quotidiane che riducano lo scarto tra potenziale e realtà.
Scuola, protocolli e responsabilità quotidiane
Nelle aule, l’inclusione non è un’etichetta, è un metodo: procedure condivise, alleanze educative con le famiglie, docenti supportati da équipe interne e territoriali. Il quadro normativo italiano offre già strumenti utili: la Direttiva ministeriale sui BES del 27 dicembre 2012 e la Circolare n. 8/2013 indicano piani didattici personalizzati, gruppi di lavoro per l’inclusione (GLI) e reti di scuole come architettura operativa per rispondere ai bisogni degli alunni con difficoltà, tra cui i disturbi della fluenza. Sono basi concrete su cui costruire protocolli specifici per la balbuzie, capaci di orientare tempi, valutazioni e relazioni in classe.
Un protocollo scolastico efficace, nella pratica, significa prevedere modalità di accoglienza calibrate, un linguaggio valutativo che non penalizzi l’esposizione orale, una pianificazione degli interventi condivisa con la logopedia territoriale, oltre a una comunicazione chiara sul ruolo di compagni e famiglie. La scuola è il primo luogo dove un bambino che balbetta decide se fidarsi della propria voce. Dare forma a questa fiducia richiede coordinate precise e aggiornate: linee interne, formazione, monitoraggi periodici del clima di classe e sostegni che non siano vissuti come “eccezione”, ma come parte naturale del percorso formativo.
Cure e formazione che servono
Sul fronte sanitario, la richiesta è altrettanto chiara: più formazione, più integrazione, accessi più rapidi. Le linee guida evidence-based tradotte e diffuse in Italia dai logopedisti indicano un approccio multidimensionale alla balbuzie lungo tutto l’arco di vita, con presa in carico precoce e coordinamento tra professionisti. La Federazione Logopedisti Italiani ha messo a disposizione la traduzione delle linee guida olandesi e documenti operativi, segnando una strada di qualità per valutazione e trattamento. La tempestività, in questi percorsi, non è un dettaglio: è spesso ciò che cambia la traiettoria.
Ma la tempestività ha bisogno di risorse. In audizione parlamentare è emerso come i logopedisti siano circa 13.982, pari a 24 ogni 100.000 abitanti contro una media europea di 36, con liste d’attesa che in alcune aree arrivano fino a due anni: un dato che rende concreta l’urgenza di organizzare meglio la presa in carico sul territorio e di investire in personale. L’idea di “cura” deve coincidere con “accessibilità”, altrimenti resta incompiuta.
Lavoro, adulti e stereotipi da superare
La balbuzie accompagna alcune persone oltre l’infanzia e può influire su opportunità e performance lavorative se l’ambiente non sa accogliere e valorizzare. I dati degli istituti di ricerca statunitensi ricordano che la difficoltà di fluenza, se persistente, incide sulla qualità di vita e può avere ricadute in ambito occupazionale; è qui che la richiesta di “maggiore sensibilità nel mondo del lavoro” trova la sua ragione concreta. Quando il contesto smette di misurare la competenza dal numero di esitazioni, le competenze si vedono.
Un tassello non va trascurato: l’impatto sociale. Ricerche e centri clinici internazionali segnalano il legame tra balbuzie, rischio di bullismo e ansia sociale, specie in età scolare e adolescenziale. Per questo la prevenzione passa anche da politiche educative che proteggano le relazioni, e da luoghi di lavoro che riconoscano e normalizzino una diversa fluenza. La dignità di chi parla a modo suo è una responsabilità collettiva. In Italia, la FLI ha richiamato più volte questa urgenza, rimarcando quanto l’ambiente faccia la differenza nel percorso terapeutico e di vita.
Settimana nazionale e convegno a Roma
La Giornata internazionale di consapevolezza sulla balbuzie del 22 ottobre ha fatto da perno a una settimana di iniziative nelle scuole e nelle piazze, coordinate da LEA e Psicodizione Onlus, con testimonianze e attività esperienziali per raccontare cosa significhi balbettare e come sostenere chi lo vive. Il 26 ottobre gli appuntamenti si sono spostati nelle piazze, con giochi e letture per trasformare la curiosità in empatia pratica, come descritto dalle cronache del mondo cattolico e dell’informazione locale che hanno seguito da vicino il calendario.
Il cuore istituzionale è stato il convegno del 22 ottobre nella Sala Mechelli del Consiglio regionale del Lazio, con la partecipazione di professionisti della sanità e della scuola e di figure del mondo dello spettacolo. Sono stati annunciati anche passi politici: dal Presidente del Consiglio regionale Antonello Aurigemma alla presentazione, da parte del consigliere Rodolfo Lena, della prima proposta di legge regionale dedicata alla balbuzie. In sala, la testimonianza di Paolo Bonolis ha dato un volto pubblico a un’esperienza condivisa da tanti.
Ricerca scientifica e diagnosi precoce
La scienza sta aprendo nuove strade. Nell’estate 2025 un ampio studio genetico pubblicato su Nature Genetics ha individuato decine di geni associati alla balbuzie, offrendo prospettive per diagnosi più precoci e interventi sempre più mirati. È un tassello che non sostituisce la clinica, ma la potenzia: capire meglio i meccanismi biologici aiuta a costruire percorsi terapeutici personalizzati e a combattere pregiudizi radicati, perché conoscere è il primo modo di rispettare.
Quanto ai numeri, gli organismi di riferimento convergono su stime ormai consolidate: circa l’1% degli adulti convive con la balbuzie, mentre tra i bambini la percentuale è più alta e può arrivare tra il 5% e l’8%, con una quota significativa che recupera spontaneamente o con supporto. L’esordio avviene spesso tra i 2 e i 6 anni: un’età che rende decisiva l’attenzione di pediatri e insegnanti per avviare percorsi di presa in carico senza ritardi.
Domande essenziali, risposte chiare
Quanti bambini sperimentano la balbuzie e quanti la mantengono? Le stime più utilizzate indicano che tra il 5% e l’8% dei bambini attraversa un periodo di balbuzie; circa tre su quattro recuperano, lasciando intorno all’1% della popolazione un problema duraturo. Queste percentuali, diffuse dalla Stuttering Foundation e da centri clinici internazionali, aiutano a leggere la variabilità dei percorsi individuali senza previsioni affrettate, puntando su monitoraggio, supporto alla famiglia e lavoro coordinato con la scuola e la logopedia. La statistica orienta, ma non definisce il destino del singolo.
Quando è il momento giusto per chiedere aiuto? Subito, se un genitore o un insegnante è preoccupato. I servizi sanitari britannici ricordano che l’intervento in età prescolare è spesso il più efficace: non esiste una “soglia” universale, ma segnali ricorrenti – blocchi frequenti, tensione evidente, frustrazione, evitamento – meritano una valutazione professionale. L’obiettivo non è “correggere un difetto”, bensì sostenere la comunicazione e ridurre l’impatto emotivo. Referire presto un bambino a un logopedista significa investire sulla sua fiducia mentre la sua voce sta ancora prendendo forma.
Cosa può fare subito la scuola, senza attendere una diagnosi? Attivare gli strumenti dell’inclusione già disponibili: un percorso personalizzato condiviso con la famiglia, il coinvolgimento del GLI, la definizione di regole di classe che proteggano i turni di parola e il tempo di risposta, una valutazione che premi i contenuti e non penalizzi le esitazioni. La cornice BES, delineata da Direttiva 2012 e Circolare 2013, consente interventi mirati anche in assenza di certificazioni specifiche, evitando che l’attesa diventi un alibi. La coerenza tra regole, linguaggio e gesti quotidiani è il primo vero sostegno.
Balbuzie e lavoro: quali attenzioni rendono la differenza? Comprendere che la fluenza non misura competenza. La letteratura clinica internazionale segnala come la balbuzie persistente possa pesare su opportunità e performance se l’ambiente non è inclusivo; invertire la rotta significa favorire modalità di comunicazione flessibili, tempi adeguati nelle riunioni, selezioni che valutino le competenze tecniche e non lo stile di eloquio. La sensibilità richiesta da Comastri non è un favore, è un criterio di giustizia organizzativa che restituisce alla persona il diritto di esprimere il proprio valore.
Parole che diventano impegno
Ci sono stanze in cui un bambino aspetta il proprio turno e trattiene il fiato: è lì che la società si misura. A Roma, il 22 ottobre, la rete tra associazioni, professionisti e istituzioni ha mostrato una strada fatta di atti quotidiani e scelte politiche: protocolli nelle classi, formazione strutturata, percorsi rapidi di cura, una proposta di legge regionale. Il nostro sguardo resta su chi parla con un ritmo diverso e chiede solo di essere ascoltato fino in fondo. Perché da quell’ascolto nasce il Patto che fa la differenza tra un talento nascosto e un talento che trova casa.
