A 83 anni, Werner Herzog confessa un desiderio che sfida il buon senso: filmare su Marte. Lo ammette con ironia e lucidità, definendolo un gesto “folle”, ma irresistibile per chi da sempre insegue l’ignoto. Lo racconta alla Dpa, mentre a Colonia riceve un riconoscimento che celebra una vita intera dedicata al cinema d’avventura.
Un desiderio più forte degli anni
Herzog non rinnega la ragione: andare sul pianeta rosso con una videocamera sarebbe “tecnicamente difficile, lungo e in fondo piuttosto inutile”. Eppure l’idea non lo abbandona. Sa che la superficie è ostile e che le radiazioni cosmiche impongono bunker sotterranei, una prospettiva che lui stesso definisce assurda. E ammette, senza giri di parole, che “probabilmente non accadrà mai”: l’età avanza, ma il richiamo del cosmo resta. In passato ha persino presentato due candidature per un volo nello spazio, entrambe respinte; la sua spiegazione è di una schiettezza spiazzante: “sono semplicemente troppo vecchio”. Parole che pesano e insieme scaldano, perché rivelano la tenacia di chi, nonostante tutto, continua a guardare lontano.
Questa tensione verso l’estremo non nasce oggi. Nel suo cinema, Herzog ha inseguito vulcani e ghiacci, deserti e oceani di silenzio. Ha raccontato l’Antartide in “Encounters at the End of the World” e le bocche di fuoco in “Into the Inferno”; ha persino giocato con l’immaginario del viaggio spaziale in “The Wild Blue Yonder”, riassemblando materiali reali per trasformarli in un racconto visionario. È un filo rosso che ritorna: l’uomo davanti all’immensità, la macchina da presa come compagna di viaggio, la curiosità come bussola.
L’ostacolo invisibile della realtà marziana
Nella concretezza dei dati, però, il sogno inciampa in cifre ostinate. Gli strumenti RAD del rover Curiosity hanno misurato sul suolo marziano un flusso quotidiano di radiazioni dominato dai raggi cosmici galattici: una dose media intorno a 210 microgray al giorno, variabile con l’attività solare e la tenue atmosfera. Significa che la permanenza in superficie richiede strategie di schermatura, tempi ridotti e habitat protetti. È il lato meno romantico dell’esplorazione, quello che costringe a pesare ogni minuto trascorso all’aperto. In questo quadro, la metafora di Herzog—“come infilarsi in un forno a microonde”—rende perfettamente l’idea.
Non sorprende allora che lo stesso regista riconosca l’oggettiva superiorità dei robot per missioni di superficie prolungate. A ricordarcelo, mentre lui parla di Marte, sono i passi inesorabili di Perseverance nel cratere Jezero, tra campioni raccolti e tempeste di polvere finite in selfie storici, e gli indizi più recenti che alimentano la discussione scientifica su possibili biosignature in antiche rocce lacustri. La tecnologia avanza, gli umani osservano: per ora il racconto marziano lo scrivono ruote e sensori. Ed è proprio questo a rafforzare il paradosso di Herzog: accettare che le macchine aprano la strada, senza rinunciare al sogno di esserci.
Premi a Colonia e nuove ossessioni creative
A Colonia, il percorso di Werner Herzog è stato celebrato con il Filmpreis Köln, premio da 25.000 euro sostenuto dalla Film- und Medienstiftung NRW e dalla Città di Colonia. Un riconoscimento che il festival ha tradizionalmente riservato a cineasti capaci di imprimere una direzione al linguaggio del nostro tempo, e che nel 2025 ha salutato il lavoro di un autore ancora in piena attività creativa. Una cerimonia asciutta, di sostanza, che ha chiuso l’edizione con la consapevolezza di consegnare a un “classico vivente” un tributo dovuto.
Nello stesso contesto, Herzog ha mostrato il suo nuovo documentario, “Ghost Elephants”, viaggio nell’altopiano dell’Angola insieme al biologo sudafricano Steve Boyes alla ricerca di una misteriosa mandria. Il film, passato dalla Biennale di Venezia e approdato in rassegne internazionali, intreccia scienza e mito con quella miscela di rigore e abbandono che riconosciamo al suo sguardo. Diversi osservatori, dal quotidiano britannico a testate culturali, ne hanno colto la singolare potenza narrativa; intanto National Geographic ne ha annunciato l’acquisizione, con arrivo in streaming previsto nel 2026.
Tra Marte e Angola: il senso di una ricerca
Guardando a questo doppio orizzonte—Marte e gli “elefanti fantasma”—emerge una coerenza profonda. Herzog non insegue la conquista, ma l’enigma. Lo aveva anticipato anni fa con “The Wild Blue Yonder”, dove la fantascienza diventava un modo per restituire vibrazioni del reale. Oggi rilancia: da un lato la consapevolezza che, per gli umani, i limiti tecnici dello spazio restano imponenti; dall’altro la determinazione a non smettere di porre domande, a lasciare che il dubbio diventi forma e ritmo. È il suo marchio, un’ostinazione creativa che non si esibisce, ma resiste.
E anche quando racconta territori estremi della Terra—dalle banchise in “Encounters at the End of the World” alle colate laviche in “Into the Inferno”—la sua macchina da presa cerca sempre quel varco dove la conoscenza sfiora l’ignoto. È un invito a misurarsi con l’incertezza, a non confondere la cronaca con l’esperienza. Per questo il suo sogno marziano, per quanto impraticabile, suona autentico: non è un atto di presunzione, ma un modo per restituire al pubblico il brivido di una soglia.
Domande lampo, risposte senza giri di parole
Ha davvero intenzione di filmare su Marte? Lo ha detto con chiarezza alla Dpa: vorrebbe portare una videocamera sul pianeta rosso, pur riconoscendo che l’impresa è “tecnicamente difficile, lunga e in fondo inutile”. Nel suo racconto pesano radiazioni e condizioni estreme; la volontà resta, ma la probabilità è bassa, come ammette con autoironia: “non ringiovanisco”. Un desiderio reale, temperato dall’esperienza e dalla consapevolezza dei limiti.
Perché sostiene che i robot siano più adatti degli umani? Perché le macchine non soffrono il terreno tossico né la radiazione che investe la superficie marziana. Le misure raccolte dagli strumenti RAD e le attività dei rover come Perseverance mostrano quanto sia complesso, costoso e rischioso operare per periodi lunghi con equipaggi umani. I robot, oggi, garantiscono continuità e risultati scientifici dove la presenza fisica sarebbe un azzardo.
Che cos’è “Ghost Elephants” e perché se ne parla? È il nuovo documentario di Herzog, girato nell’altopiano dell’Angola con il biologo Steve Boyes sulle tracce di una mandria sfuggente. Presentato alla Biennale di Venezia e poi a Colonia, il film unisce ricerca scientifica e dimensione leggendaria. Le recensioni internazionali ne hanno sottolineato la forza narrativa, e National Geographic ne ha annunciato l’acquisizione per lo streaming nel 2026.
Un’ultima immagine, prima di ripartire
C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui Werner Herzog tiene insieme ambizione e limite. Sogna Marte e, nello stesso tempo, riconosce che a volte sono le macchine a doverci precedere. La sua lezione, che sentiamo di fare nostra, è questa: esplorare non significa imporsi sul mondo, ma ascoltarlo a distanza ravvicinata, accettando che certi sogni restino irraggiungibili e proprio per questo necessari.
Non c’è retorica: solo una chiamata a riconoscere il coraggio di chi cerca, anche quando sa che potrebbe non arrivare. In quell’ostinazione c’è il valore di un cinema che non si limita a mostrare, ma interroga; che ci prende per mano e ci chiede di guardare più a fondo, dove la realtà smette di essere scontata e torna a farci battere il cuore.
