C’è un dettaglio che cambia la prospettiva su una delle icone più amate del grande schermo. La DeLorean di Ritorno al futuro è entrata nell’immaginario come simbolo di libertà, velocità, destino ribaltato. Eppure Michael J. Fox, la persona che più di ogni altra l’ha resa immortale, racconta nel suo nuovo libro che mettersi al volante non era un premio, ma una piccola tortura quotidiana. Non una boutade: è un ricordo netto, puntellato di descrizioni fisiche e di frasi che non lasciano spazio ad ambiguità.
Il memoir Future Boy (uscito il 14 ottobre 2025) riapre il baule di quell’anno detonante in cui un ventitreenne canadese diventa Marty McFly di notte e Alex P. Keaton di giorno. E lì, fra costumi pastello, corse in autostrada tra un set e l’altro e il ritmo forsennato di un ragazzo che costruisce il proprio futuro, spunta l’altra faccia della macchina del tempo: bella da guardare, brutta da guidare. Fox la definisce senza giri di parole «una macchina di m***a», spiegando che nell’abitacolo modificato dagli effetti speciali finiva spesso ferito, con tagli sulle dita, nocche livide e gomiti doloranti.
Che cosa c’è nel racconto di Future Boy
Nel libro l’attore ripercorre le notti sulla DeLorean con una precisione che colpisce. La scena è sempre quella: portiere ad ali di gabbiano, consolle piena di congegni, tubi e cavi che incorniciano il sedile, e lui che deve sembrare rilassato mentre dialoga con Doc. Sembra comodo, non lo è. Fox scrive che i pezzi aggiunti — flusso canalizzatore, orologi, “fronzoli” vari — avevano spigoli vivi e superfici taglienti. Dopo la prima notte, racconta, le mani gli erano «crisscrossed» di graffi e le nocche «bruised». Un’ammissione asciutta, quasi sportiva: la fatica resta, la pellicola rimane.
C’è poi l’aspetto “meccanico”. L’attore annota che la vettura era lenta in ripresa e povera nelle finiture, giudizi che stonano con il luccichìo delle inquadrature e con i sogni dei fan, ma che hanno senso per chi, sul serio, doveva farci scena: accelerare al punto giusto, tenere il segno, infilare battute e sguardi senza incastrarsi contro una cornice metallica. Quell’auto disegnata per la fantascienza non è nata per la recitazione in spazi stretti; su un set, ogni spigolo diventa un nemico.
Mito sullo schermo, attrito nella realtà
Il cinema vive di contrasti. La DeLorean è icone delle icone perché attraversa fuoco e lampi, spalanca porte verso altre epoche e arriva a 88 mph tra scintille e musica. Dentro, però, la realtà è più rustica: un guscio rigido, margini vivi, strumenti “arrangiati” per diventare credibili in quadro. Lì si capisce la distanza tra l’oggetto che vediamo e il dispositivo che serve a fabbricare quella visione. A noi spettatori arriva la sensazione di fluidità; all’attore restano i segni del mestiere.
Questo non toglie nulla al fascino del risultato finale. Anzi, lo amplifica. Sapere che Fox recitava mantenendo il sangue freddo mentre l’abitacolo gli imponeva micro‑urti e posture innaturali aggiunge un livello di rispetto per il lavoro invisibile. Quante volte, rivedendo la trilogia, abbiamo pensato: “Che meraviglia dev’essere stato guidarla”? Qui la risposta si capovolge: meraviglioso guardarla, impegnativo starci dentro.
Quell’anno impossibile e l’equilibrio tra due mondi
Future Boy nasce anche dall’incrocio di due set e due identità che si passavano il testimone a poche ore di distanza. Di giorno Family Ties, di notte Back to the Future. Il racconto di Fox su quell’equilibro funambolico è il contesto che spiega la sua franchezza sulla DeLorean: quando vivi di minuti e contrazioni (del tempo e dei muscoli), ogni attrito pesa doppio. Eppure l’energia che traspare è quella di chi sa che sta partecipando a qualcosa che resterà.
Nel 2025 la saga spegne quarant’anni, e quella memoria fisica torna preziosa. Se vi è capitato di festeggiare l’anniversario riguardando il film, forse avete avvertito un sottile scarto: le mani sul volante che sembrano leggere, i movimenti che scivolano senza inciampi. Ecco, sotto c’è il lavoro dell’attore che trasforma un abitacolo spigoloso in una cabina di sogni.
Cosa ci dice questo retroscena, oggi
Ci riguarda perché racconta il prezzo del mito. Quella che per noi è una silhouette perfetta, per chi la abita può essere un ambiente imperfetto. Non c’è cinismo nella parola “m***a”, c’è sincerità: un oggetto può essere cinematograficamente magnifico e materialmente scomodo. La magia del cinema vive anche di questo: incanalare il disagio nell’immagine e restituirci solo l’incanto.
E allora, la prossima volta che sentirete il ronzio del flusso canalizzatore e vedrete il bagliore sulle fiancate, provate a immaginare quel che succedeva un istante prima del ciak: gomiti che cercano spazio, dita che schivano viti e placche, respiro che si fa regolare. È lì che l’icona nasce davvero — dove la realtà graffia e l’attore la doma, perché a noi arrivi solo il volo.
