Nell’aria di ottobre, Gregorio Mattiocco torna a Roma con un doppio gesto creativo: porta in sala Bratiska e, da produttore, accompagna Fiji. Dentro Alice nella Città, parallela alla Festa del Cinema di Roma, le sue storie cercano il punto esatto in cui distanza e intimità si toccano e si interrogano.
Un ritorno che parla di distanza interiore
La traiettoria di Mattiocco in questa nuova stagione romana ruota attorno a un’idea semplice e radicale: sentirsi fuori posto non come mancanza, ma come spazio fertile. È in quel margine che l’autore affina lo sguardo, sceglie i dettagli, si concede l’allontanamento necessario per osservare meglio. Lontano dal rumore, le cose si ricompongono: i legami, le fragilità, il linguaggio dei corpi. Nelle note diffuse dal Centro Sperimentale di Cinematografia e riprese da Rai Cultura, questa postura creativa emerge come un filo che tiene insieme progetto e metodo, scelta dei volti e geografia dei luoghi.
Non è disadattamento, è scarto. Una lente che gli permette di sottrarsi alla velocità comune e pensare per immagini, prima che per parole. È un modo di stare nel mondo che diventa pratica di regia: prendersi il tempo, decantare, tornare sui dettagli con lucidità. In questo movimento, le storie prendono corpo senza indulgere nell’enfasi; cercano piuttosto il momento in cui un gesto, uno sguardo, una bugia a fin di bene aprono un varco di verità. E il cinema diventa, così, l’occasione per rimettere ordine al presente, senza ingabbiarlo.
“Bratiska”: due fratelli sospesi e il peso delle parole non dette
Bratiska racconta di Hlib, giovane ucraino rifugiato in Italia, e del legame con il fratellino Vlad. Vivono ai margini, tra precarietà e silenzi. Quando a casa si presenta un professore per parlare della pagella, Vlad mente: finge che sia un assistente sociale, sapendo che Hlib non comprende l’italiano. L’estraneità che attraversa i due non è lo sfondo della storia, ma la materia viva del film. Il regista lo chiarisce con decisione: non intende raccontare la guerra, bensì dare voce a quella condizione di spaesamento che chiede protezione, misura, ascolto.
Il corto, realizzato con il sostegno del Centro Sperimentale di Cinematografia e interpretato da Hlib Tovstoluh, Ruslan Hurak e Edoardo Pesce, è in Onde Corte – Concorso Panorama Italia e ha avuto la proiezione ufficiale il 17 ottobre 2025 all’Auditorium Conciliazione. Non è un racconto “a tesi”: preferisce la frizione tra gesti e incomprensioni, la paura che arretra davanti a un guizzo di coraggio, l’ombra di un fraintendimento che cambia il corso di una giornata. Una stanza, poche parole, il necessario per far emergere il non detto.
Il set come laboratorio: immagini prima delle parole
In Fiji, che Mattiocco produce con la sua Panoramic Studio, il processo creativo parte da un’immagine, non da una pagina scritta. Lavorando con Andrea Lamedica — regista e fotografo — la storia prende forma come un circuito visivo condiviso: figure, cromie, ritmo. È un modo di intendere il cortometraggio che privilegia l’impatto sensoriale alla spiegazione lineare, perché certe verità si dicono meglio con un’inquadratura che con una didascalia. Ne viene un racconto breve, denso, pensato per lasciare tracce al buio, quando lo schermo si spegne e restano gli echi interiori.
Fiji segue quattro giovani assistenti di volo della low-cost PanoramicAir alla vigilia di un decollo: due esordienti, due “veterane”, una notte in albergo per allentare la tensione. Il gioco di ruolo che inventano per sdrammatizzare, però, incrina l’equilibrio e disvela una verità profonda. Il film debutta in anteprima mondiale a Alice nella Città 2025, nella sezione Onde Corte – Concorso Panorama Italia, ed è prodotto da Panoramic Studio, come riportano il programma diffuso dai media e le note di presentazione.
Un circuito di festival che allunga il passo del racconto breve
Il viaggio di Fiji prosegue oltre Roma. La Cineteca di Bologna ha inserito il titolo tra le opere selezionate di Visioni Italiane 2025, rassegna che si terrà dal 10 al 16 novembre 2025. È un approdo che conta perché mette il corto dentro un confronto diretto con il pubblico e con chi fa cinema nel Paese, in un contesto che da anni valorizza nuovi sguardi e formati brevi. Non un passaggio di pura vetrina, ma un banco di prova sul ritmo e sulla tenuta del racconto.
Pochi giorni più tardi, il film compare nel programma del Riga International Film Festival 2025 con il titolo “Fidži”, confermando la capacità di parlare a platee diverse e in lingue differenti senza smarrire precisione e calore. La circolazione internazionale del corto non è un orpello: è la verifica sul campo di un’immagine che cammina da sola, attraversa confini e riaccende domande familiari anche lontano da casa. È lì che un’idea trova la sua misura.
Alice nella Città, un orizzonte che accoglie fragilità e slanci
La 23ª edizione di Alice nella Città si tiene a Roma dal 15 al 26 ottobre 2025, come sezione autonoma e parallela alla Festa del Cinema di Roma. Tra Auditorium Parco della Musica e Auditorium Conciliazione, il programma intreccia concorsi, anteprime e incontri dedicati ai nuovi pubblici e ai nuovi autori. Le giornate dei corti, cuore pulsante del dialogo con la città, mettono in fila storie che preferiscono l’essenziale allo spettacolo fine a sé stesso.
A guidare il lavoro — come ricordano i materiali diffusi — sono Fabia Bettini e Gianluca Giannelli, che spingono perché i corti non siano un semplice prologo, ma un territorio con regole proprie e ambizioni precise. In questo perimetro, Bratiska e Fiji si affiancano ad altre proposte dell’Onde Corte – Panorama Italia, tessendo una mappa di temi, geografie e sensibilità. È un mosaico che restituisce il presente nella sua complessità, senza cercare scorciatoie consolatorie.
Dopo “Piccolo Attila”, una tappa che cambia passo
Un anno fa Mattiocco incrociava Alice nella Città 2024 con Piccolo Attila, ritratto asciutto di due fratelli alle prese con identità, appartenenza e il fascino ambiguo di un tifo che diventa rito di passaggio. Prodotto da Panoramic Studio e distribuito da Pathos Distribution, il corto ha trovato spazio nel programma dei corti italiani, consolidando la relazione dell’autore con la città e con un pubblico curioso di storie brevi e precise. È lì che il suo cinema ha iniziato a farsi riconoscere per rigore e sensibilità.
Tra recensioni e schede ufficiali, quel lavoro lasciava intravedere già allora una scelta di campo: guardare i legami familiari come zone di frizione, dove si cresce per attrito e ci si misura con i limiti. Non un manifesto, ma un’intenzione. Oggi, con Bratiska, quell’intenzione si fa più larga: la lingua come barriera, l’infanzia come responsabilità, la casa come teatro di un fraintendimento che sposta l’asse della giornata. La continuità non è nella trama, ma nello sguardo.
Domande in tasca per chi ama il cinema breve
Cosa significa, per te, sentirti “fuori posto” quando giri? È il punto da cui cominciare: stare un passo di lato, mettere tra sé e la scena una distanza che non è fuga, ma attenzione. Da lì le cose diventano leggibili, gli attori respirano, i gesti contano. Non è un rifiuto del mondo: è il tentativo di abitarlo senza subirne il rumore, per poi restituirlo con onestà allo spettatore in forma di immagini che restano.
Perché due fratelli ucraini, e non un film “sulla guerra”? Per raccontare l’estraneità quotidiana, non l’evento eccezionale. In una cucina qualsiasi, davanti a una porta che si apre, può nascere un malinteso che dice più di tanti proclami. La guerra resta fuori campo; dentro ci sono due ragazzi che cercano una posizione nel mondo. Quello scarto, quella mancanza di appigli, è il cuore emotivo e politico del racconto, perché fa emergere il bisogno di protezione senza retorica.
Nei corti parti spesso da un’immagine: che cosa guadagni, cosa rischi? Guadagni densità: una fotografia giusta può dire ciò che dieci pagine non dicono. Rischi l’astrazione, se dimentichi il corpo degli attori e il respiro della scena. La chiave è lavorare sull’“immaginario condiviso”: fissare insieme il perimetro tonale e poi lasciare che la vita entri. È un equilibrio sottile, ma quando funziona la storia cammina da sola e chi guarda la sente propria.
Che traccia ti ha lasciato “Piccolo Attila” nel passaggio a “Bratiska”? Mi ha consegnato l’idea che la famiglia sia un terreno scomodo e necessario. Nel nuovo corto ho spostato l’asse: dalla fascinazione per un rito collettivo alla fragilità di due vite in bilico. Ho capito che, riducendo il rumore di fondo, certe verità emergono con più nettezza. Non serve alzare la voce: basta mettere i personaggi nella stanza giusta e restare ad ascoltarli.
Una chiusura che resta addosso
Alla fine, di questi film resta una sensazione precisa: la realtà non si impone, si accoglie. Spesso sono dettagli minuti — un italiano non compreso, un gioco che smette di essere gioco — a rivelare il punto di rottura. A noi interessa stare in quella soglia, dove l’immagine comincia a farsi pensiero. È qui che Bratiska e Fiji trovano la loro forza, e che Alice nella Città dimostra quanto sia necessario proteggere lo sguardo dei più giovani.
Raccontare non è accarezzare il già visto, ma restituire al presente i suoi margini vivi. Nel cinema breve di Gregorio Mattiocco, quei margini hanno il colore di due fratelli che si cercano e di quattro ragazze che ridono per farsi coraggio. È una promessa di sincerità che passa da Roma e guarda avanti, verso platee diverse e la stessa domanda: dove ci mettiamo, adesso, per capirci davvero?
