Antonio La Piccirella ha presentato una nuova denuncia alla Procura di Roma in cui attribuisce a Israele condotte qualificabili come tortura dopo l’intercettazione in mare e il trasferimento forzato dell’equipaggio nel porto di Ashdod. Nel fascicolo, firmato dal legale Flavio Rossi Albertini, si chiede anche di valutare eventuali responsabilità italiane nella protezione dei connazionali coinvolti.
Una denuncia che chiama per nome la tortura
Nell’atto depositato in procura, l’attivista della Global Sumud Flotilla ricostruisce le fasi successive all’abbordaggio: identificazioni di massa, spoliazione degli effetti personali, perquisizioni eseguite con violenza gratuita, arti fratturati e ammanettamenti con fascette serrate dietro la schiena. Gli attivisti, secondo questo racconto, sarebbero stati mantenuti con il volto a terra e poi condotti in un piazzale rovente, costretti in ginocchio, con i bagagli sulle spalle, sguardo basso e divieto di parlare; chi non obbediva, riceveva colpi alla testa. La narrazione è formalizzata dal difensore Rossi Albertini, che in un precedente esposto aveva già ripercorso la cattura in mare aperto della nave Handala, poi rimorchiata ad Ashdod, come ricordato da cronache su quanto accadde il 26 luglio. La dinamica del sequestro in acque internazionali è stata infatti riassunta anche da la Repubblica in un articolo del 24 settembre 2025, con riferimenti a droni e unità navali senza segnale, prima della svolta verso acque egiziane e del successivo assalto militare, sempre descritti come avvenuti fuori da acque territoriali.
Il racconto si sposta quindi alle celle. La Piccirella riferisce di essere stato ristretto con altre dodici persone in circa dodici metri quadrati, con soli sei posti letto, dormendo quindi a terra. L’acqua potabile non sarebbe stata distribuita: gli arrestati avrebbero bevuto quella del bagno, descritta come opaca e dal sapore rancido. In più, il legale riporta uno stato di stordimento diffuso, tanto da ipotizzare che cibo o acqua potessero contenere sostanze medicinali; nel pane, il primo giorno, sarebbero state rinvenute scaglie di metallo di circa un centimetro, con la conseguenza di controllare con sospetto ogni pasto. Una cornice di dettagli che, al di là delle verifiche giudiziarie, si inserisce nella più ampia contestazione della condotta militare e penitenziaria documentata dagli atti difensivi depositati a Roma. La presentazione del nuovo esposto si inserisce nella scia di denunce già note e rese pubbliche dalla stampa italiana in queste settimane, con particolare attenzione alla ricostruzione del fermo della Handala.
Ore concitate tra banchine e sbarre: il filo dei racconti incrociati
Quadri in parte sovrapponibili emergono da riscontri indipendenti: il centro legale Adalah ha riferito che decine di partecipanti alla Flotilla, dopo l’intercettazione in alto mare e il rimorchio, sarebbero stati tenuti per ore in ginocchio con le mani legate dietro la schiena da fascette, senza acqua né accesso ai servizi e con ostacoli all’assistenza legale. Nella stessa cornice, Adalah segnala una presenza del ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir al porto, interpretata come gesto di umiliazione e intimidazione. Sono accuse che Israele respinge, ma che tornano in più testimonianze raccolte nelle ore successive, compresa la descrizione di trasferimenti al penitenziario di Ketzi’ot nel deserto del Negev e di audizioni dinanzi alle autorità migratorie.
Racconti analoghi arrivano da attivisti di vari Paesi. Testimonianze rese a media internazionali parlano di percosse, zip-tie serrati per ore, privazione di sonno e cure, con episodi di disidratazione e farmaci trattenuti. Un rapporto interno di DFAT, citato dalla stampa australiana, riporta tra l’altro lo spostamento in gabbie sovraffollate e maltrattamenti fisici prima dell’ingresso in carcere, mentre ricostruzioni di quotidiani britannici evocano condizioni igieniche precarie e umiliazioni simboliche. Il quadro, più volte smentito da fonti israeliane, è intanto oggetto di monitoraggio consolare e di pressioni diplomatiche per la tutela dei detenuti.
Le richieste alla magistratura italiana: cosa deve essere accertato
La nuova denuncia non si limita a elencare presunte violenze: chiede di verificare se siano configurabili ipotesi di sequestro di persona, tortura, violazioni del codice della navigazione e perfino tentato omicidio in relazione alle modalità dell’operazione in mare e alle condizioni di detenzione. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo, al momento senza indagati, raccogliendo gli esposti degli attivisti rientrati in Italia dopo la missione umanitaria della Flotilla. La cornice investigativa, ricostruita dalla stampa, include anche la valutazione di eventuali responsabilità collegate a ordini e prassi adottate durante i fermi di massa e alle successive procedure di trattenimento.
Nell’atto si sollecita inoltre di vagliare possibili profili di responsabilità del governo italiano, che aveva inizialmente inviato una fregata per assistere i connazionali, salvo poi non proseguire nell’accompagnamento nelle tratte considerate a rischio operativo. Su questo fronte, il titolare della Farnesina Antonio Tajani ha spiegato pubblicamente di aver ricevuto rassicurazioni da Israele sul non uso della forza e sulla rapida espulsione degli stranieri fermati, riaffermando che la presenza navale aveva natura umanitaria e non di scorta armata. È una linea ribadita anche in precedenza dal ministero della Difesa, che aveva ridotto il dispositivo e chiarito i limiti d’impiego delle unità navali.
Il quadro internazionale della Global Sumud Flotilla
La Global Sumud Flotilla, la più ampia iniziativa civile via mare degli ultimi anni, ha riunito decine di imbarcazioni e centinaia di partecipanti di numerosi Paesi con l’obiettivo dichiarato di portare aiuti simbolici a Gaza e contestare il blocco navale. Secondo ricostruzioni giornalistiche, molte unità sono state intercettate a circa 70 miglia nautiche dalla costa, con il rimorchio verso Ashdod e la conseguente detenzione ai fini dell’espulsione. Il quadro ha innescato reazioni governative differenti in Europa e mobilitazioni in numerose capitali, mentre gli organizzatori hanno annunciato l’intenzione di proseguire la campagna.
Gli episodi recenti si inseriscono in una sequenza di intercettazioni avvenute in più fasi del 2025: dalla Madleen, fermata in acque internazionali all’inizio dell’estate, fino alla Handala di fine luglio, entrambe rimorchiate ad Ashdod con equipaggi trattenuti e poi espulsi. Le cronache israeliane e internazionali riportano che a bordo vi fossero anche parlamentari europei e attivisti di profilo pubblico, con la Marina israeliana che ha rivendicato la necessità di impedire l’ingresso in una zona di operazioni militari, invitando a convogliare eventuali aiuti tramite canali ufficiali.
Le repliche di Israele e il nodo del diritto
La posizione ufficiale di Israele resta ferma: la rotta verso Gaza attraversa un’area definita zona di combattimento, dove vige un blocco militare volto a prevenire minacce alla sicurezza; per questo, sostengono le autorità, gli aiuti dovrebbero essere consegnati a porti designati e trasferiti tramite canali statali. A livello politico, il ministro Itamar Ben-Gvir ha rivendicato un approccio duro verso i fermati, mentre fonti militari hanno negato l’uso di violenza gratuita. Sul fronte europeo, il capo della diplomazia italiana Tajani ha sottolineato le assicurazioni ricevute da Tel Aviv sul non ricorso alla forza, annunciate in diretta televisiva.
Anche il dibattito giuridico è acceso. Gli organizzatori e diversi accademici richiamano la libertà di navigazione e l’innocent passage, sostenendo che fermare imbarcazioni civili in alto mare contrasti con il diritto del mare e con gli obblighi umanitari; sul punto, analisi internazionali hanno ricordato tutele previste dalle Convenzioni di Ginevra per chi tenta di recapitare soccorsi. Sul versante opposto, l’argomento di Israele è l’eccezione di conflitto armato e la necessità di far transitare gli aiuti in hub controllati. Nella pratica, la contesa si gioca fra interpretazioni opposte di norme e prassi in contesto bellico.
Rientri, volti e parole: l’Italia che aspetta ai binari
Molti attivisti hanno lasciato il Paese in più scaglioni, con rientri organizzati via Atene e assistenza consolare. Le cronache italiane hanno documentato arrivi in stazioni e aeroporti, strette di mano, cartelli e stanchezza sui volti. La stessa ANSA ha ricostruito partenze e liberazioni, con 170 persone in uscita e un gruppo consistente di italiani registrato tra i rilasciati, mentre si moltiplicavano i racconti delle ore di detenzione. In parallelo, si sono tenute conferenze e conferme d’indagine, con un’agenda giudiziaria che ora incrocia la diplomazia.
Tra i rientri, quello di Antonio La Piccirella a Bari è diventato simbolico: nelle sue prime dichiarazioni pubbliche, ha ribadito la priorità di chi ancora restava trattenuto e ha criticato l’azione del governo italiano, mentre familiari e sostenitori si sono stretti attorno a lui. Pochi giorni prima, il padre aveva chiesto aggiornamenti in Comune, riferendo l’ansia di non avere notizie del figlio; l’amministrazione cittadina aveva attivato contatti con la Farnesina per accelerare il rientro dei connazionali. È la dimensione umana, prima di tutto, a dare la misura di quanto accaduto.
Linee d’ombra e prossime mosse
Resta da chiarire, nelle sedi competenti, se le condotte contestate integrino reati perseguibili in Italia e quali responsabilità possano emergere sul piano internazionale. Le fonti legali che sostengono la Flotilla richiamano principi di protezione dei civili e libertà di navigazione; la controparte rivendica la legittimità del blocco per ragioni di sicurezza, con la possibilità di dirottare gli aiuti su porti prestabiliti. La distanza tra queste tesi, resa viva dai resoconti dei fermati e dalle smentite ufficiali, impone verifiche puntuali su tempi, luoghi e modalità dei fermi, nonché sulle condizioni di trattenimento. È un accertamento che dovrà misurarsi con dossier, testimonianze e riscontri tecnici.
Domande a risposta rapida
Qual è il cuore della denuncia presentata da Antonio La Piccirella? L’esposto punta a far accertare se l’intercettazione in alto mare, il trasferimento ad Ashdod e il successivo trattenimento configurino, nel loro insieme, sequestro di persona, tortura e altre violazioni, alla luce del racconto su percosse, posture forzate, privazione d’acqua e condizioni indegne in cella. Il deposito dell’atto, firmato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, integra ricostruzioni già formalizzate nelle scorse settimane e ora confluite nel fascicolo aperto dalla Procura di Roma, come riportato dalla stampa italiana.
Che cosa sostengono le autorità israeliane sull’intercettazione della Flotilla? Che l’area marittima di riferimento sia sotto blocco per ragioni di sicurezza e assimilabile a una zona d’operazioni; perciò, eventuali aiuti dovrebbero confluire in porti indicati e poi essere trasferiti con canali statali. In parallelo, il ministro Itamar Ben-Gvir ha ostentato un approccio punitivo verso i fermati, mentre portavoce militari negano violenze arbitrarie. Si tratta di posizioni politiche e operative contestate dagli organizzatori e da centri legali che raccolgono testimonianze sui trattamenti.
Il governo italiano aveva l’obbligo di “scortare” le barche fino a Gaza? No: Roma ha spiegato pubblicamente che la presenza navale aveva natura di assistenza ai connazionali e non di scorta armata, con limiti operativi chiari e l’obiettivo di evitare l’escalation. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha riferito di rassicurazioni israeliane sul non uso della forza e sul rapido rimpatrio, mentre la Difesa ha ridotto il dispositivo da due a una fregata, chiarendo che non avrebbe varcato determinate aree a rischio. La denuncia chiede comunque di verificare se vi siano state omissioni giuridicamente rilevanti.
Qual è il perimetro legale entro cui leggere questa vicenda? Gli organizzatori invocano la libertà di navigazione e, per missioni civili di soccorso, l’“innocent passage”, sostenendo che l’abbordaggio in alto mare violi il diritto internazionale e gli obblighi umanitari; Israele oppone la necessità militare e il controllo degli accessi per la sicurezza. È un confronto di principi e prassi che coinvolge il diritto del mare, il diritto internazionale umanitario e la giurisdizione penale nazionale, con valutazioni che mutano a seconda del quadro fattuale provato in atti.
Uno sguardo che non si volta dall’altra parte
Le storie che abbiamo ascoltato parlano di mani strette dietro la schiena, di sete e di notti passate a contare le ore; ma anche di aule di giustizia, dove ogni parola deve trovare riscontro. È lì che si misurerà la distanza tra le versioni. La nostra bussola resta la stessa: raccontare, verificare, chiedere conto. Perché su un molo assolato o in una cella angusta, ciò che accade merita di essere visto con attenzione, nome per nome, gesto per gesto.
