Sette pazienti su dieci con tumore gastrico operabile sono vivi a tre anni grazie a un percorso perioperatorio che integra l’immunoterapia durvalumab alla chemioterapia, come documentato da un ampio studio internazionale di fase 3. Un dato solido, che sposta l’orizzonte della cura e rende più concreto il dialogo tra medici e pazienti.
Un cambio di passo reso possibile dalla ricerca
Parlare oggi di tumore dello stomaco significa misurarsi con un carico globale enorme: nel 2022 sono stati stimati quasi un milione di nuovi casi nel mondo e oltre 660mila decessi. Numeri che raccontano una malattia ancora difficile, quinta per incidenza e tra le prime per mortalità. A complicare il quadro, in alcune aree è stato osservato un incremento nelle diagnosi al di sotto dei 50 anni, una tendenza che interroga clinici e sistemi sanitari sul perché e sul come intervenire in tempo.
Nel nostro Paese il peso è tangibile: più di 72.000 persone vivono dopo una diagnosi di carcinoma gastrico, con oltre 14.000 nuove diagnosi stimate in un anno e con una quota troppo esigua di casi intercettati in fase iniziale. Dati raccolti da istituzioni cliniche italiane fotografano una sopravvivenza a cinque anni che resta migliorabile e confermano l’urgenza di percorsi di cura capaci di ridurre le recidive dopo l’intervento. È in questa necessità concreta che si inserisce il nuovo approccio perioperatorio con immunoterapia.
Che cosa dimostra davvero MATTERHORN e perché conta per i pazienti
Lo studio di fase 3 MATTERHORN ha arruolato 948 persone con adenocarcinoma gastrico o della giunzione gastro-esofagea in stadio resecabile (II–IVA), distribuite in 176 centri di 20 Paesi. Il protocollo ha previsto durvalumab più chemioterapia (FLOT) prima dell’intervento, quindi la stessa combinazione in adiuvante e infine durvalumab in monoterapia. Il primo segnale forte era arrivato con il miglioramento dell’event-free survival, presentato in precedenza in sede congressuale internazionale; oggi quel segnale si traduce in un beneficio di sopravvivenza globale che cambia la prospettiva clinica.
Nell’analisi finale della sopravvivenza, l’aggiunta di durvalumab al regime perioperatorio ha ridotto il rischio di morte del 22% rispetto alla sola chemioterapia (hazard ratio 0,78), con una stima di 69% di pazienti vivi a tre anni contro il 62% del braccio di controllo. La mediana di sopravvivenza non è stata ancora raggiunta in nessuno dei due gruppi, e il vantaggio è risultato coerente anche considerando lo stato di espressione di PD-L1. È la prima strategia immunoterapica perioperatoria a mostrare un beneficio di sopravvivenza in questa malattia.
Dal congresso di Berlino all’ambulatorio: come i dati si traducono nella pratica
I risultati sono stati svelati durante il Congresso ESMO 2025, ospitato a Berlino dal 17 al 21 ottobre: una cornice dove la comunità oncologica internazionale ha messo a confronto evidenze e direzioni future. Il valore del dato emerge anche alla luce di precedenti tentativi di combinare immunoterapia e chemioterapia nel perioperatorio: studi come KEYNOTE‑585, pur interessanti per alcuni segnali biologici, non avevano mostrato un miglioramento statisticamente significativo della sopravvivenza libera da eventi o della sopravvivenza globale.
In Italia, specialisti di riferimento nelle neoplasie gastrointestinali hanno letto queste evidenze come un passo concreto verso un possibile nuovo standard a intento curativo per i tumori gastrici e della giunzione gastro‑esofagea. Oncologi impegnati in reti cliniche nazionali, come Lorenzo Fornaro (Azienda Ospedaliero‑Universitaria Pisana) e Alessandro Pastorino (IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova), hanno sottolineato l’urgenza di trattamenti innovativi capaci di ridurre le recidive e di allungare la sopravvivenza in una malattia che, nonostante chirurgia e chemioterapia, resta complessa nel lungo periodo.
Il percorso terapeutico: prima, durante e dopo l’intervento
Il regime sperimentato in MATTERHORN accompagna il malato lungo tutto il tragitto di cura: due cicli di neoadiuvante con durvalumab più FLOT per aggredire la malattia prima del bisturi; chirurgia con intento curativo; quindi adiuvante con la stessa combinazione e, a seguire, durvalumab in monoterapia per consolidare la risposta. Nello studio, la percentuale di pazienti arrivata all’intervento è risultata sovrapponibile tra i due bracci e il profilo di sicurezza si è mantenuto coerente con quello noto dei singoli trattamenti, indicando la praticabilità clinica del percorso.
Questo approccio “accompagna” paziente e équipe clinica in ogni fase: prima per ridurre il rischio che cellule residue compromettano l’esito, poi per difendere nel tempo la qualità del risultato chirurgico. È una strategia che parla di continuità e di alleanza terapeutica, con l’obiettivo di contenere il pericolo di ritorno della malattia laddove, storicamente, avremmo temuto di più.
Domande rapide
Chi può essere candidato a questo trattamento? Lo schema con durvalumab e chemioterapia è stato studiato in persone con tumore gastrico o della giunzione gastro‑esofagea in stadio II–IVA, valutate resecabili. La sequenza comprende terapia prima e dopo l’intervento, con successiva monoterapia. La selezione resta affidata ai team multidisciplinari, che considerano stadio, condizioni generali, biologia del tumore e obiettivi condivisi con il paziente.
Cosa significa “69% vivo a tre anni”? È una stima di sopravvivenza: indica che, a tre anni dall’inizio della terapia, circa sette persone su dieci trattate con il regime a base di durvalumab risultano vive, rispetto a poco più di sei su dieci con la sola chemioterapia. È un miglioramento misurato in uno studio controllato e randomizzato, che aiuta medici e pazienti a valutare i benefici attesi.
Questo approccio è già “standard” per tutti? I dati presentati in sede congressuale indicano un vantaggio clinicamente rilevante e coerente. L’adozione capillare richiede tuttavia i passaggi formali di valutazione da parte delle autorità regolatorie e l’aggiornamento delle linee guida nazionali e internazionali, oltre alla definizione dell’accesso nei diversi sistemi sanitari.
Come si confronta con altri tentativi di immunoterapia nel perioperatorio? Il quadro è stato finora eterogeneo: ad esempio, lo studio KEYNOTE‑585 con pembrolizumab non ha raggiunto una significatività statistica negli endpoint principali di sopravvivenza libera da eventi e sopravvivenza globale, pur mostrando segnali biologici interessanti. Il risultato di MATTERHORN spicca perché documenta un beneficio di sopravvivenza globale in questo setting.
Oltre i numeri: responsabilità, ascolto, scelte condivise
Le cifre raccontano molto, ma non tutto. Dietro quel 69% ci sono voci, volti, famiglie, colloqui in cui si pesa ogni pro e ogni contro. L’oncologia moderna non è un unico sentiero: è l’incontro tra scienza robusta, percorsi personalizzati e capacità di ascolto. A Berlino la comunità internazionale ha messo sul tavolo una speranza concreta; sta ai team clinici trasformarla, con prudenza e rigore, in beneficio per le persone giuste.
È questo lo sguardo che portiamo nelle nostre pagine: raccontare la ricerca quando diventa cura, senza enfasi né scorciatoie, rispettando la complessità delle decisioni e l’urgenza dei bisogni reali. E continuare a seguire i dati, con la stessa attenzione con cui si segue un paziente nel tempo, per restituire un’informazione che sostenga scelte consapevoli e condivise.
