Nella sala affollata dell’Auditorium, la Roma degli Anni 70 torna a pulsare tra ricordi e contraddizioni. Pietro Castellitto presenta Il falsario e rilancia una domanda scomoda: che cosa significa, oggi, scrivere la Storia?
Un racconto tra arte e ferite del Paese
Alla 20esima Festa del Cinema di Roma, in scena dal 15 al 26 ottobre, Il falsario porta sullo schermo l’ascesa di Toni Chichiarelli, pittore di talento che approda nella Capitale con un sogno artistico e si ritrova al crocevia fra ambizioni personali e grandi eventi nazionali. Il film, diretto da Stefano Lodovichi e prodotto da Cattleya per Netflix, si inserisce tra i titoli più discussi dell’edizione, grazie a un cast guidato da Pietro Castellitto e a una materia narrativa che scotta ancora oggi. Il programma della rassegna e la scheda ufficiale di produzione delineano i contorni di un progetto che ha chiuso le riprese in primavera e arriva a Roma con la curiosità del pubblico alle stelle.
La trama segue Chichiarelli tra Anni 70 e 80 in una Roma febbrile, dove il talento pittorico si mescola a frequentazioni pericolose: sulla sua strada si affacciano la Banda della Magliana e il caso Moro. È qui che l’arte smette di essere solo stile e diventa strumento, capace di cambiare il corso di una vita e di sfiorare la Storia con la punta di una penna. Il film ricostruisce quell’intreccio con l’attenzione di chi maneggia una materia delicata, affidando al protagonista lo sguardo di chi “mette il piede un po’ ovunque senza mai troppo apparire”, fino a diventare un personaggio chiave in uno dei misteri più laceranti del Paese.
Toni Chichiarelli, un protagonista nascosto
Il nome di Toni (Antonio) Chichiarelli compare nei racconti sul sequestro di Aldo Moro per il cosiddetto falso “comunicato n. 7”, datato 18 aprile 1978: un testo che annunciava la morte dello statista e indicava il lago della Duchessa come luogo del ritrovamento. Le ricerche non portarono a nulla, ma quel depistaggio segnò i 55 giorni più dolorosi della Repubblica. Diverse ricostruzioni giornalistiche e storiografiche attribuiscono a Chichiarelli la redazione del falso, sottolineandone le relazioni con ambienti criminali e l’ambiguità di un ruolo rimasto, in parte, nell’ombra.
Il profilo di Chichiarelli si intreccia con la Banda della Magliana e con la clamorosa rapina alla Brink’s Securmark del marzo 1984, un bottino da 35 miliardi di lire entrato nella cronaca come “colpo del secolo”. Nello stesso 1984 il falsario viene ucciso in circostanze mai del tutto chiarite. È il ritratto di un uomo sospeso tra l’abilità nel replicare capolavori e la tentazione di piegare la realtà con documenti e messaggi che sembrano autentici. A distanza di decenni, il suo nome resta legato a depistaggi, relazioni pericolose e all’idea di una verità che sfugge.
Sulla sua figura hanno scritto i giornalisti Nicola Biondo e Massimo Veneziani in “Il falsario di Stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo”, un volume del 2008 spesso citato quando si cerca di comprendere il personaggio e il contesto. Nelle indagini e nelle commissioni parlamentari che si sono succedute, il suo nome riemerge come tassello di un mosaico complesso, tra ipotesi, atti processuali e interpretazioni. La letteratura e i repertori bibliografici ricordano come il libro abbia contribuito a consolidare un filo narrativo su Chichiarelli, senza sciogliere definitivamente ogni nodo.
Dentro il film: visione, scrittura, produzione
Stefano Lodovichi affronta quella stagione senza esservi cresciuto, scegliendo di ricostruirla attraverso lo studio e il cinema dell’epoca. La sua macchina da presa cerca l’ambiguità di Toni come cifra del racconto: un personaggio che sfiora mondi opposti — estremismi, servizi, criminalità — e resta defilato, quasi mimetico. Il progetto arriva alla Festa dopo un percorso produttivo che ha visto Cattleya e Netflix unire le forze, puntando su un cast che accosta volti popolari e nuove energie interpretative, con Pietro Castellitto al centro.
La scrittura porta la firma di Sandro Petraglia, con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, e affonda le radici proprio nel saggio di Biondo e Veneziani. La cronologia ufficiale diffusa ad aprile indica la fine delle riprese e conferma la natura Netflix Film del progetto, mentre le note editoriali del libro — repertoriate in cataloghi e librerie — testimoniano come la figura del falsario fosse già stata indagata con rigore, tra documenti e testimonianze. Nel passaggio dalla pagina allo schermo, il film sembra tenere insieme inchiesta e personaggio, senza rinunciare alla tensione narrativa.
Generazioni allo specchio: dalle piazze di ieri ai social di oggi
Nel dialogo con i giornalisti, Pietro Castellitto mette a fuoco un confronto che brucia: “Negli Anni 70 si aveva l’impressione di poter cambiare la Storia; oggi prevale una forma di rassegnazione”. Parole che nascono, dice, dai racconti di Riccardo Tozzi e di suo padre Sergio, e che fotografano un sentimento generazionale non facile da definire. Quel futuro “da scrivere” di allora, nelle sue parole, diventerebbe oggi un percorso più segnato, dove l’urgenza di scegliere un campo netto lascia spazio a un disincanto che rischia di immobilizzare.
Il ragionamento di Castellitto incontra l’obiezione di Sandro Petraglia, che richiama le mobilitazioni contemporanee, e la replica di Stefano Lodovichi, convinto che su molti temi nazionali l’impegno giovanile fatichi a tradursi in azione concreta. È un confronto civile, acceso ma misurato, che non pretende verdetti: l’impressione è che il film, più che imporre un giudizio, inviti a rimettere al centro la responsabilità individuale, l’atto del “fare”, il prendere posizione nella vita quotidiana anche al di là di appartenenze e tifoserie.
Il mestiere dell’attore tra tela e inchiostro
Per entrare nel corpo di Toni, Pietro Castellitto si è affidato anche a un pittore consulente, che ha realizzato i quadri di scena e lo ha guidato nelle tecniche, provenendo da una storia familiare legata alla falsificazione. Un dettaglio rivelatore: la fisicità del gesto — il polso che sfiora la tela, il respiro davanti al foglio — diventa chiave attoriale per capire un uomo che ha fatto della copia la sua verità. Il talento, quando non trova un varco istituzionale, cerca strade laterali. È lì che il film scava, nell’attrito tra vocazione artistica e compromesso.
La preparazione di Castellitto arriva dopo l’interpretazione di Riccardo Schicchi in Diva Futura, altra figura che incrocia la Storia italiana dalla porta di servizio, tra media, costume e censure. Quel lavoro, presentato a Venezia 81 e uscito in sala nel 2025, ha restituito all’attore il passo e il coraggio per affrontare un protagonista scomodo come Chichiarelli. Il percorso di ruoli così diversi, ma uniti da un comune spirito di frontiera, racconta la sua maturità artistica di questi anni.
Domande in tasca prima dei titoli di coda
Quando arriverà su Netflix? In sede produttiva il film è indicato come “prossima uscita” e le riprese risultano concluse il 29 aprile 2025. Nel corso della presentazione romana è stata menzionata una finestra del 2026; come accade spesso con i titoli originali, la data può essere aggiornata dai canali ufficiali di Netflix. Il consiglio è di seguire le comunicazioni di Cattleya e della piattaforma per una conferma definitiva.
Chi era davvero Toni Chichiarelli, in poche parole? Un artista capace di imitare i maestri, un abile falsario romano legato — secondo numerose ricostruzioni — alla Banda della Magliana, finito al centro del depistaggio del “comunicato n. 7” durante il sequestro Moro. La sua storia incrocia anche il “colpo del secolo” alla Brink’s e una morte violenta nel 1984. Molte tessere sono note, altre restano controverse, come spesso accade quando criminalità e potere si sfiorano.
Perché raccontarlo oggi? Perché la sua parabola parla di immagini, copie, fake. Chichiarelli costruiva falsi artistici e comunicati che sembravano veri; oggi viviamo immersi in contenuti manipolati, montaggi perfetti, video generati con tecniche avanzate. Il film invita a chiedersi quanto siamo allenati a distinguere, quanto sappiamo resistere alla tentazione di credere alla prima versione, e come l’etica personale torni decisiva nel tempo dell’apparenza.
Quanto c’è di indagine e quanto di racconto? Le basi sono documentate: la scrittura nasce dall’esperienza di Sandro Petraglia e affonda nel saggio di Biondo e Veneziani. Ma il cinema non è un atto istruttorio: sceglie i punti di vista, delinea un carattere, costruisce tensione. Qui l’attenzione storica convive con la libertà del racconto, nel rispetto delle fonti e con la prudenza necessaria quando si toccano vicende ancora sensibili.
Che immagine di Roma restituisce il film? Una città magnetica e pericolosa, dove un giovane con i pennelli può perdersi e ritrovarsi nello stesso istante. Dai laboratori di quartiere alle strade solcate dai poteri, la Capitale degli Anni 70 è un organismo vivo che spinge i destini ad accelerare. La sinossi ufficiale richiama proprio questa metamorfosi: l’arrivo di Toni in città e il suo passo, sempre più rapido, verso la zona grigia in cui l’arte smette di essere innocente.
Una chiusura che resta addosso
C’è una scena che rimane, più delle altre: non è un colpo di pistola né un inseguimento. È il gesto di una mano che traccia una linea e, in quell’istante, decide chi essere. È qui che Il falsario trova il suo centro emotivo: nell’attrito fra creatività e responsabilità, fra desiderio di riuscire e prezzo da pagare. In sala lo si avverte come un brivido sottile, il tipo di sensazione che continua a lavorarti dentro quando le luci si riaccendono.
Nel nostro mestiere amiamo i dettagli che parlano piano e i fatti che pesano. Questo film, presentato a Roma con l’attenzione delle grandi occasioni, ci ha chiesto di stare attenti, di non accontentarci della superficie e di rimettere al centro la complessità. È un invito a ricordare che ogni storia è una scelta: per chi la vive, per chi la racconta, per chi la guarda. E quella scelta, oggi come ieri, merita coraggio.
