Vincenzo Alfieri porta alla Festa del Cinema di Roma un racconto che rifiuta l’indifferenza: in 40 secondi la memoria di Willy Monteiro Duarte si fa cinema e coscienza civile, tra sguardi che si incrociano e un tempo collettivo, spesso anestetizzato, che il film prova a risvegliare.
Un concorso che interroga il presente
Nel cuore competitivo della ventesima edizione, il Progressive Cinema, il titolo di Alfieri si misura con una domanda semplice e radicale: come si racconta un atto di coraggio in un’epoca che scorre dal racconto di una strage alla foto di un red carpet con la stessa distratta velocità? L’opera, presentata all’Auditorium Parco della Musica, affida a una messa in scena essenziale la ricostruzione delle ventiquattro ore che precedono l’omicidio del ventunenne di Colleferro, evitando la retorica e cercando la verità delle persone. La selezione in concorso e il posizionamento del film sono stati sottolineati dagli annunci ufficiali diffusi a settembre, che hanno rimarcato la centralità del progetto nel dialogo tra cinema e società.
Il calendario, denso di anteprime, ha visto il film emergere tra i titoli italiani più attesi, in un’edizione che ha riunito sguardi diversi ma accomunati dall’urgenza del racconto. Un quadro corale che ha dato al lavoro di Alfieri una cornice di senso: intercettare i giovani, parlare agli adulti, trasformare una pagina di cronaca in occasione di responsabilità condivisa. Le anticipazioni sull’ingresso in concorso, rese note da testate come l’agenzia nazionale di stampa e i quotidiani romani, hanno fissato date e contesto, sancendo l’incontro tra il film e il pubblico del festival.
Origini del progetto e la scelta di uno sguardo
L’idea nasce dal libro d’inchiesta di Federica Angeli, “40 secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza”, che ha restituito, con rigore di fonti e testimonianze, la dinamica, i silenzi e le responsabilità che hanno preceduto e seguito quella notte. Alfieri, insieme allo sceneggiatore Giuseppe Stasi, ha scelto di non ridurre la storia a un copione “classico”: la macchina da presa osserva una giornata qualunque, nel tempo sospeso del post-pandemia, quando la rabbia sociale e il bisogno di ripartire convivevano in tensione permanente. L’approccio rifiuta l’eroizzazione e persegue un’umanità concreta, fatta di gesti minimi e scelte improvvise, di ciò che accade prima dell’irreparabile.
Questa opzione estetica porta il racconto fuori dalla semplificazione e dentro la fatica del reale: nessun compiacimento, nessun compito a casa sugli stereotipi. La macchina da presa non cerca il colpo di scena, ma l’attimo in cui una comunità potrebbe scegliere di guardare invece che voltarsi altrove. È qui che il film trova la sua vibrazione, nella tensione tra l’inerzia collettiva e l’azione singola che interrompe la catena dell’indifferenza.
Il volto di Willy e la verità degli attori
Per restituire autenticità, la produzione ha affiancato interpreti affermati a volti nuovi selezionati con street casting. Il debutto di Justin De Vivo nel ruolo di Willy è una scelta che risuona con l’intento dell’opera: cercare la verità, non l’imitazione. Insieme a lui, Francesco Gheghi, Enrico Borello, Francesco Di Leva, Beatrice Puccilli, Giordano Giansanti, Luca Petrini, con la presenza di Sergio Rubini e Maurizio Lombardi. Gli attori si muovono come corpi nel tempo, segnati da una incomunicabilità generazionale che il film tematizza, mostrando frammenti di dialoghi mancati e di parole mai dette che spesso precedono i fatti. L’intenzione è chiara: far arrivare al pubblico la verità emotiva di quella notte, senza sovrapporre una morale alla storia.
Nel lavoro sulle interpretazioni, Alfieri chiede di sottrarre più che aggiungere. Gli sguardi, i silenzi, la fisicità dei gesti diventano racconto, perché la violenza non ha bisogno di essere urlata per essere percepita. In questo equilibrio di misure, il coraggio diventa un atto quasi naturale, il contrario dell’eroismo spettacolare: l’istinto di proteggere un amico, lo scarto minimo che separa la vita dal suo contrario. È il punto dove il cinema, se onesto, può ancora generare riconoscimento e cambiamento intimo.
Dal festival alle sale: una traiettoria necessaria
La proiezione capitolina rappresenta l’avvio di un percorso pensato per arrivare al grande pubblico, con Eagle Pictures impegnata a portare il film nelle sale a fine novembre, subito dopo il battesimo festivaliero. La strategia distributiva punta a dialogare con platee diverse e a favorire la circolazione dell’opera anche in contesti educativi. L’attenzione suscitata alla vigilia e la collocazione in competizione hanno confermato come il titolo sia percepito non soltanto come un evento cinematografico, ma come un invito a rimettere in discussione l’assuefazione a immagini e notizie che scorrono troppo in fretta per lasciare traccia.
Nei giorni della Festa, l’eco del film è risuonata accanto ad altre opere italiane selezionate nello stesso concorso, a testimonianza di una stagione che prova a fare del cinema un laboratorio di consapevolezza. La scelta di posizionare “40 secondi” in un dialogo serrato con il pubblico romano non è casuale: è la città che ha vissuto il lutto di Colleferro e che ospita i luoghi della memoria; ma è anche la città che, grazie al festival, può trasformare la visione in confronto civile. Le informazioni su programma, date e sezione competitiva sono state confermate dagli annunci ufficiali diffusi a metà settembre e ripresi dalle principali testate nazionali.
Il fatto giudiziario e la memoria che resta
Il cammino del film incrocia una verità giudiziaria ormai definita. Nel marzo 2025, la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha confermato l’ergastolo per Marco Bianchi e disposto 28 anni per Gabriele Bianchi nell’ambito dell’appello-bis, circoscritto alla valutazione delle attenuanti generiche dopo il passaggio in giudicato della responsabilità per omicidio volontario. Le cronache di quei giorni hanno riportato le parole della madre di Willy, Lucia Monteiro Duarte, nitide nel richiamo alla realtà: nessuna pena potrà restituire un figlio, ma il rispetto degli altri può impedire che accada ancora. Le testate nazionali hanno ricostruito con puntualità le tappe processuali e l’esito delle decisioni.
Inserire questa cornice non significa sovrapporre la sentenza alla narrazione filmica, ma ricordare che il cinema, quando attinge al reale, deve misurarsi con i fatti. La pellicola, però, non indaga il dibattimento: interroga il prima, il tessuto sociale di relazioni e omissioni in cui maturano gli esiti più bui. In questo senso, la scelta di concentrarsi sulle ventiquattro ore antecedenti l’omicidio restituisce al pubblico la responsabilità dello sguardo: riconoscere i segnali, ascoltare le crepe, non passare oltre. Una responsabilità che riguarda tutti, senza eccezioni.
Scuole, comunità, pubblico: perché questo film deve circolare
La produzione e la distribuzione hanno indicato con chiarezza l’orizzonte: portare il film nelle scuole, favorire proiezioni e incontri che aiutino a nominare la violenza e a riconoscerne i dispositivi quotidiani. È un gesto che non risolve la realtà, come ricordato con lucidità dagli stessi produttori, ma che può incidere sulle coscienze, aprendo spazi di confronto dove spesso prevalgono paura o rimozione. L’impatto sociale di un’opera non si misura in proclami, bensì nella capacità di generare discussione informata, all’interno di famiglie, classi e comunità locali. Se una platea esce dalla sala con una domanda in più, il cinema ha fatto il suo mestiere.
In questa prospettiva, la circolazione del film oltre il circuito festivaliero diventa fondamentale. Le storie come quella di Willy vanno raccontate senza compiacimenti, ma anche senza timori: l’educazione allo sguardo critico si costruisce mostrando le conseguenze concrete dei gesti, ma anche la forza di chi, come il giovane di Colleferro, ha scelto di non rimanere indifferente. È un’eredità morale che chiama per nome gli adulti tanto quanto i ragazzi, perché la responsabilità è generazionale e condivisa.
Domande rapide
Il film è tratto da un’inchiesta giornalistica? Sì, si ispira al libro di Federica Angeli “40 secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza”, che ha ricostruito con fonti e testimonianze le dinamiche della vicenda.
Dove è stato presentato in anteprima? Nella sezione competitiva Progressive Cinema della ventesima Festa del Cinema di Roma, cornice scelta per aprire il dialogo con pubblico e stampa.
Quando arriva in sala? La distribuzione nazionale è programmata a fine novembre, subito dopo il passaggio romano, con l’obiettivo di raggiungere platee ampie e contesti educativi.
Qual è il fulcro narrativo dell’opera? Le ventiquattro ore che precedono l’omicidio, osservate per far emergere relazioni, segnali trascurati e scelte improvvise che definiscono la responsabilità individuale e collettiva.
Questo film chiede di essere guardato senza filtri: Willy non è un simbolo astratto, ma il volto concreto di un ragazzo che ha scelto il bene nel momento in cui farlo costava di più. Raccontarlo oggi significa opporsi alla distrazione, rimettere al centro la responsabilità delle nostre comunità e chiamare ciascuno a un gesto minimo ma decisivo: non passare oltre. È la misura di un giornalismo e di un cinema che, insieme, provano a tenere viva l’umanità quando la cronaca tenta di spegnerla.
