Israele si prepara a votare sul cambio di nome della campagna militare e, nelle stesse ore, riceve da Hamas un altro corpo di ostaggio tramite la Croce Rossa. Due notizie che si intrecciano e mostrano quanto il conflitto resti aperto sul terreno simbolico e umanitario, tra memoria, diplomazia e una fragile tregua che cerca di reggere.
Un cambio di nome che pesa sulla memoria
Il governo israeliano metterà ai voti domenica il passaggio da “Spade di Ferro” a “Guerra di Rinascita”, formula che il premier Benjamin Netanyahu difende da oltre un anno come sintesi di resistenza e futuro. La decisione, anticipata dalla stampa israeliana, arriva a ridosso dell’anniversario del 7 ottobre e intende imprimere alla narrazione ufficiale una svolta lessicale, politica e identitaria. Il dibattito non è solo semantico: tocca l’idea stessa di come Israele vuole ricordare e indirizzare la fase successiva del conflitto.
Negli ultimi mesi il termine “Guerra di Rinascita” è entrato a più riprese nei discorsi pubblici del premier, tra Knesset e messaggi televisivi, come cornice strategica delle operazioni e come promessa al Paese di sicurezza e riscatto. Questa scelta linguistica, sostenuta in diverse occasioni ufficiali, ha sollevato anche perplessità nell’arena politica e nella società civile, in particolare tra i familiari degli ostaggi che legano ogni “rinascita” al pieno ritorno dei propri cari. Una tensione lessicale che riflette quella, ben più concreta, sul terreno.
Il significato politico e simbolico
Rinominare una guerra significa ristabilire priorità e messaggi. Per l’esecutivo, “rinascita” evoca l’idea di una fase nuova, oltre la mera reazione all’attacco del 2023; per i critici, rischia di diventare un’etichetta che precede i fatti, a partire dal destino degli ostaggi e dalla traiettoria della sicurezza regionale. Nel mezzo, la richiesta di chiarezza su obiettivi, tempi e condizioni di uscita, che gruppi di familiari e parte dell’opinione pubblica sollevano con insistenza, chiedendo piani verificabili e risultati tangibili.
La semantica, insomma, non è un dettaglio: incide sulla percezione internazionale, orienta la diplomazia e influenza la gestione interna del consenso. In un arco di mesi in cui il governo ha rivendicato continuità di linea e fermezza, le parole scelte diventano un termometro politico. Ma il vocabolario non basta: serve una cornice operativa coerente con le promesse, in primis sul dossier ostaggi e sul perimetro delle operazioni nelle aree più sensibili della Striscia di Gaza.
Il ritorno dei resti degli ostaggi
Nel sud di Gaza, a Khan Younis, Hamas ha consegnato alla Croce Rossa il corpo di un altro ostaggio, poi trasferito alle Idf e avviato alle procedure di identificazione forense. È un passaggio che pesa emotivamente e diplomaticamente: segna un ulteriore adempimento nell’ambito della tregua, ma riaccende il dolore delle famiglie che attendono ancora notizie definitive. Le autorità israeliane parlano di verifiche in corso e di un processo complesso, mentre le organizzazioni umanitarie insistono sull’accesso sicuro alle aree di recupero.
Secondo fonti internazionali, la restituzione odierna si inserisce nella sequenza di trasferimenti di resti che ha accompagnato la prima fase dell’intesa: un percorso accidentato, scandito da accuse incrociate su ritardi e responsabilità. Hamas attribuisce le difficoltà alla presenza di macerie e all’impossibilità tecnica di recupero in alcune zone; la controparte ribatte che i luoghi sarebbero noti e che i tempi non sono giustificabili. La dimensione umana resta la più lacerante, con familiari che chiedono verità e dignità nel ritorno.
Pressioni e telefonate ai massimi livelli
Sul fronte politico, Netanyahu ha sollecitato direttamente Washington, chiedendo di fare pressione su Hamas perché completi la consegna dei corpi ancora trattenuti. Dalla capitale statunitense, la linea resta quella di sostenere l’attuazione graduale dell’intesa e di evitare strappi che possano far crollare la tregua. Il quadro è sorvegliato passo dopo passo dalla Casa Bianca, che ha ribadito pubblicamente aspettative stringenti sulle prossime scadenze del piano.
Nelle stesse ore, dagli Stati Uniti è arrivato anche l’avvertimento che l’architettura della tregua non può reggere senza piena collaborazione sulle restituzioni e sul disarmo. Si tratta di un messaggio politico che accompagna la sequenza negoziale: il percorso prevede il ritorno dei resti, il consolidamento dell’assistenza umanitaria e, nella fase successiva, misure concrete sulla smilitarizzazione, monitorate da attori terzi. È una griglia che resta fragile e che richiede disciplina negoziale da entrambe le parti.
Il nodo del disarmo di Hamas
Il dirigente di Hamas Mohammed Nazzal ha affermato che il movimento non può impegnarsi ora alla consegna delle armi e intende mantenere un ruolo nella sicurezza interna durante una fase transitoria, mentre sul piano civile immagina una gestione tecnocratica seguita da elezioni. Nazzal ha parlato di una possibile tregua di tre-cinque anni per ricostruire Gaza, legando gli sviluppi successivi a orizzonti politici credibili per i palestinesi. Una posizione che collide con la condizione israeliana del disarmo come prerequisito.
Da parte israeliana, il messaggio resta netto: senza disarmo non ci potrà essere un accordo duraturo su Gaza. È la linea che si intreccia con l’intero impianto dell’intesa, pensato per procedere per fasi e subordinare i passi politici alle garanzie di sicurezza. Tra i dossier più sensibili ci sono l’eventuale forza di stabilizzazione internazionale, la protezione degli aiuti e il controllo dei valichi, tutti nodi che richiedono coordinamento e verifiche indipendenti per evitare nuove spirali di violenza.
La partita europea sulle misure restrittive
Nelle capitali dell’Unione europea si discute da settimane di un pacchetto che includeva restrizioni commerciali e sanzioni verso figure di governo israeliane considerate estremiste, oltre all’estensione di liste contro coloni violenti. La presidente Ursula von der Leyen aveva preannunciato misure incisive durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Ma l’avvio della tregua e la necessità di verificarne l’attuazione hanno spinto Bruxelles a una fase di “wait and see”, con divisioni persistenti tra Stati membri su opportunità, tempi e modalità.
Un documento del servizio diplomatico europeo suggerisce, intanto, di massimizzare l’influenza dell’UE nel percorso di ricostruzione di Gaza, anche entrando nel cosiddetto “Board of Peace” proposto da Washington, affiancando la fase tecnica e l’eventuale amministrazione transitoria. Sul tavolo restano cifre, priorità e garanzie politiche, in un contesto in cui l’unità dei Ventisette è determinante. Al netto delle simpatie o delle cautele, la domanda è una: come incidere in modo concreto senza compromettere la fragile finestra aperta dalla tregua.
Il ruolo dell’inviato statunitense Steve Witkoff
L’inviato della Casa Bianca Steve Witkoff è atteso nuovamente in Medio Oriente per seguire sul campo l’attuazione del piano negoziale: tappe previste in Egitto, Israele e, se le condizioni lo consentiranno, anche nella Striscia di Gaza. La sua agenda intreccia sicurezza, logistica umanitaria e coordinamento tra mediatori, con un obiettivo operativo: fare in modo che la prima fase dell’intesa—restituzione dei resti, afflusso di aiuti, consolidamento della tregua—proceda senza scossoni.
Nei mesi scorsi Witkoff ha già ispezionato aree chiave del dispositivo di controllo e ha ribadito, in interviste internazionali, che la ricostruzione di Gaza richiederà anni e impegni finanziari ingenti. Il disegno, nelle intenzioni statunitensi, prevede anche la valutazione di una forza internazionale a supporto della stabilizzazione e meccanismi di verifica per il disarmo. Ma tutto dipende dalla tenuta della tregua e dalla volontà delle parti di passare dalle dichiarazioni agli atti, senza scorciatoie.
Chiarimenti rapidi
Il cambio di nome dell’operazione è già in vigore? No, il voto di gabinetto è atteso domenica; la proposta mira a sostituire “Spade di Ferro” con “Guerra di Rinascita”, una dicitura che il premier sostiene da tempo.
Quanti resti di ostaggi sono stati riconsegnati nell’ultima tornata? Le autorità hanno comunicato la ricezione di un altro corpo tramite la Croce Rossa, con identificazioni forensi in corso e contestazioni reciproche sui ritardi nelle consegne.
Hamas accetterà il disarmo? Un dirigente ha detto che al momento non può impegnarsi, proponendo una tregua pluriennale e una fase transitoria con ruolo di sicurezza; per Israele il disarmo resta condizione non negoziabile.
L’UE andrà avanti con sanzioni contro membri del governo israeliano? Il pacchetto resta in sospeso: Bruxelles osserva l’evoluzione della tregua, mentre tra gli Stati membri permangono divisioni su portata e tempistiche.
Che farà l’inviato Witkoff nei prossimi giorni? Rientra nell’area per spingere l’attuazione dell’accordo, verificare i passaggi sensibili e incoraggiare i mediatori a mantenere la rotta su aiuti, sicurezza e prossime fasi.
Oltre le parole: la misura delle scelte
La cronaca di oggi ci ha mostrato due volti della stessa storia: il peso delle definizioni e il valore dei gesti concreti. Le etichette contano, ma a misurare la distanza tra promessa e realtà saranno i fatti: il ritorno di tutti i resti, la protezione dei civili, l’avvio di una ricostruzione credibile, la capacità di imbrigliare le armi nella morsa della politica. In questa traiettoria, il nostro sguardo resta puntato sui passaggi verificabili, sulle responsabilità esplicite e sulla tenuta di un equilibrio che, per il momento, vive nel paziente lavoro di mediazione e nella trasparenza dei risultati.
