La tregua regge, ma il dolore non si attenua: nella notte è stato restituito a Israele il corpo di Eliyahu “Churchill” Margalit, 75 anni, rapito il 7 ottobre 2023 a Kibbutz Nir Oz. L’identificazione è stata completata dalle autorità forensi e confermata dal Forum delle Famiglie degli Ostaggi.
Un ritorno che non consola: l’identità di un corpo e il peso di un’assenza
Il nome di Eliyahu Margalit si aggiunge all’elenco dei rapiti uccisi e poi trasferiti nella Striscia di Gaza. Le autorità israeliane avevano già dichiarato il decesso il 1° dicembre 2023, sulla base di riscontri investigativi e d’intelligence. Oggi, l’ufficialità dell’identificazione restituisce alla famiglia una certezza tremenda, ma necessaria: una conferma che consente il lutto e, al tempo stesso, ne intensifica il peso. Secondo testimoni e racconti di comunità, quella mattina Eliyahu si era alzato presto per nutrire i cavalli: un gesto consueto, un’abitudine spezzata dalla violenza.
La sua comunità di Nir Oz lo descriveva come un uomo radicato nella terra e tra gli animali, per anni impegnato nell’allevamento bovino del kibbutz. La notizia della restituzione del corpo arriva durante una tregua fragile, e si intreccia con altre storie familiari: la figlia Nili Margalit, infermiera, era stata rapita anch’essa il 7 ottobre e liberata il 30 novembre 2023. La sequenza dei fatti, confermata da ricostruzioni giornalistiche e dagli annunci ufficiali, consegna un mosaico di perdite, liberazioni, ritorni parziali, che lascia aperte ferite individuali e collettive.
Le famiglie in attesa: diciotto salme mancano ancora all’appello
Non tutte le famiglie hanno avuto il conforto di una tomba. Secondo gli aggiornamenti più recenti, restano ancora diciotto corpi di ostaggi nella Striscia; il recupero è ostacolato dalla distruzione diffusa, da ordigni inesplosi e da sepolture di fortuna in aree crollate. Hamas ha spiegato che alcune salme si troverebbero in zone oggi difficili da raggiungere o sotto macerie, una ricostruzione che coincide con quanto riferito da organismi internazionali: il terreno è disseminato di pericoli e il lavoro di recupero procede a rilento. Le famiglie parlano di un’attesa estenuante, che prolunga il trauma e frena qualsiasi tentativo di ricominciare.
La Conferma forense della restituzione dei resti di Margalit si inserisce in un processo più ampio: è il decimo rientro dall’avvio della tregua, a sottolineare che, accanto ai vivi, anche i morti reclamano giustizia e memoria. In questi giorni scorrono numeri e protocolli, ma dietro le statistiche ci sono volti, legami, biciclette senza proprietari e stalle vuote. Lo sforzo di identificazione, scandito da regole scientifiche, ha la funzione più umana: restituire un nome e chiudere un capitolo che non avremmo mai voluto fosse scritto così.
Tregua e corridoi: Rafah verso una riapertura vigilata
Nella cornice della cessazione delle ostilità, tutti gli sguardi tornano al valico di Rafah, punto di connessione con l’Egitto. È attesa una riapertura già da domenica, un segnale atteso da mesi che, se confermato, permetterà a persone e operatori umanitari di respirare, pur tra limitazioni e cautele. Restano interrogativi su modalità e gestione del lato palestinese, dopo i danni subiti dall’infrastruttura e i cambiamenti imposti dalla guerra. L’incertezza non cancella la necessità: per Gaza, un passaggio aperto significa ossigeno, accesso a cure e prospettive di ricostruzione.
Gli operatori sul campo ricordano che l’apertura di un confine non è mai un gesto tecnico: è l’incontro tra bisogni e responsabilità. Tra i bisogni, l’arrivo di aiuti costanti, prevedibili, in volumi adeguati; tra le responsabilità, garantire sicurezza ai convogli, trasparenza nella distribuzione e strumenti per riparare servizi essenziali. La tregua, per reggere, ha bisogno di gesti concreti e verificabili. Lo ripetono agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni sanitarie, sottolineando che l’emergenza umanitaria non si attenua da sola: va governata, passo dopo passo.
Un nome nuovo per una guerra antica di ferite
Nel dibattito politico israeliano è emersa l’ipotesi di rinominare il conflitto: dal titolo operativo “Spade di Ferro” alla definizione simbolica di “Guerra della Rinascita”. La proposta, che arriva fino al tavolo del governo, risponde all’intento di caricare la narrazione di una promessa di ripartenza. È un cambio lessicale che non muta i fatti, ma mira a interpretarne il senso, almeno agli occhi di chi guida. Anche in seno all’esecutivo, però, non mancano perplessità sull’efficacia e sulla scelta del termine.
Le parole, in politica, pesano. Una denominazione può diventare cornice, e una cornice può influenzare priorità e memoria pubblica. Tuttavia, nella cronaca quotidiana, la realtà resta quella dei villaggi devastati, delle famiglie di Nir Oz che contano i giorni, dei parenti che parlano sottovoce per non rompere l’equilibrio di chi è tornato e di chi non tornerà. Una “rinascita” potrà avere un senso solo se si tradurrà in scelte capaci di proteggere vite, riconoscere traumi e curare il terreno delle convivenze infrante.
Diplomazia ferita: l’eco dello strike di Doha
Nei corridoi della mediazione internazionale, la ferita più recente si chiama Doha. Il raid attribuito a Israele nella capitale del Qatar, mentre si discutevano intese delicate, ha lasciato strascichi profondi. Dalla regione sono arrivate condanne durissime e un sentimento di tradimento apertamente espresso dal governo qatariota, che ha definito l’azione una minaccia all’intero meccanismo negoziale. Nelle ore successive, le parole hanno viaggiato veloci: indignazione, accuse, promesse di ritorsione contro leadership nemiche all’estero. Il tavolo dei mediatori si è fatto più sottile.
Le ripercussioni hanno toccato anche Washington. Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti, e Jared Kushner hanno parlato di un sentimento di “tradimento”, spiegando che il colpo a Doha ha incrinato la fiducia di un attore cruciale come il Qatar e complicato il canale con Hamas. Nelle loro valutazioni, rese note in un’intervista televisiva, il rischio è stato quello di spezzare proprio il filo che teneva insieme contatti, scambi e ipotesi di accordo. È il limite sottile tra azione militare e diplomazia, dove una mossa sbagliata può allontanare la pace di mesi.
Il significato delle scelte: quando il campo di battaglia entra nella stanza dei negoziati
L’attacco in Qatar ha avuto un effetto domino: ha interrogato gli alleati, ha scosso i mediatori, ha mostrato la fragilità di ogni tregua. Le cronache internazionali hanno ricostruito nomi, obiettivi, esiti, sottolineando come gli incontri riservati siano parte integrante delle strade che portano a uno scambio di ostaggi, a pause umanitarie, a corridoi che si aprono. Se quel tavolo vacilla, tutto il resto si incrina. In mezzo, restano i familiari, che contano i giorni e cercano risposte non più rinviabili.
In questo clima, ogni ritorno – anche solo di un corpo – diventa un atto politico oltre che umano. Il rimpatrio dei resti di Eliyahu Margalit è un tassello di una mappa più ampia: quella che comprende i negoziati sullo scambio, le pressioni internazionali, e la richiesta, sempre più insistente, di accelerare la restituzione delle salme ancora a Gaza. Le famiglie chiedono certezze e tempi, gli apparati cercano varchi tra macerie e tunnel crollati, i mediatori provano a ricucire canali logorati.
Dentro il dolore: il ritratto di Eliyahu “Churchill”
Per chi lo conosceva, Eliyahu “Churchill” Margalit era un uomo che sapeva di terra e di vento. Negli anni aveva curato il bestiame del kibbutz e si era affezionato ai cavalli come si fa con i compagni di viaggio. L’ultimo gesto – uscire all’alba per dar loro da mangiare – è rimasto sospeso nel tempo. La sua storia, raccontata da chi ne ha seguito il percorso e da testate che hanno documentato la vita di Nir Oz, restituisce un profilo fatto di operosità, sobrietà, e di quell’ostinazione gentile che abita chi coltiva e accudisce.
La famiglia oggi tiene insieme ricordi e vuoti: la moglie Daphna, i figli Noa, Danny e Nili, i nipoti. Il filo che unisce i racconti – l’infermiere diventato paziente, la figlia salvata dopo cinquantacinque giorni, la casa bruciata, le stalle svuotate – compone l’album di un Paese che, a un anno e più dall’attacco, deve ancora imparare a parlare a bassa voce davanti a chi ha perso tutto. Il ritorno di un corpo non sana, ma toglie all’incertezza una parte del suo potere.
Domande che non smettono di bussare
Quanti ostaggi restano senza nome, quanti corpi aspettano la luce, quando tornerà stabile il passaggio degli aiuti, come si ricuce la fiducia tra mediatori dopo Doha? Le risposte, oggi, sono parziali. I dati raccolti da organizzazioni internazionali e da redazioni che monitorano la tregua descrivono una crisi sanitaria e logistica che non si risolve con annunci, ma con pianificazione e accessi garantiti. Nel frattempo, ogni restituzione – come quella di Margalit – ricorda l’urgenza di un calendario che riporti, prima di tutto, dignità ai vivi e ai morti.
Se la politica, talvolta, insegue simboli, la cronaca non può che inchiodare i fatti: corpi da identificare, famiglie da accompagnare, confini da riaprire in sicurezza, parole da pesare. È questa la trama sulla quale si misura la tenuta della tregua. Non c’è retorica che tenga davanti a una bara che rientra e a una madre che vuole salutare. Ed è da qui che si giudicano le scelte, i compromessi, gli errori da non ripetere.
Domande in primo piano
Quanti corpi di ostaggi mancano ancora e quali sono gli ostacoli al recupero? Le stime più recenti indicano che diciotto salme si trovano ancora a Gaza. Le difficoltà principali sono l’estensione delle aree distrutte, la presenza di ordigni inesplosi, i crolli che hanno sepolto resti umani e la limitata accessibilità di alcuni settori. Hamas sostiene che alcune salme siano finite sotto macerie o in zone divenute impraticabili, una versione che coincide con i rilievi di operatori internazionali sul campo.
Che cosa cambia con la possibile riapertura del valico di Rafah? Una riapertura, attesa già da domenica, riattiverebbe una linea vitale con l’Egitto, favorendo l’ingresso di persone vulnerabili e operatori, oltre a una cornice più stabile per gli aiuti. Restano però da definire controllo e modalità sul lato palestinese, dopo i danni strutturali e i mutamenti imposti dal conflitto. La differenza la faranno tempi, frequenza e sicurezza dei passaggi, senza i quali l’impatto resterà limitato.
Perché la denominazione “Guerra della Rinascita” fa discutere? Perché un nome non è neutro: orienta il racconto pubblico e può incidere sulla percezione degli obiettivi strategici. La proposta di passare da “Spade di Ferro” a “Guerra della Rinascita” intende evocare resilienza e ripartenza, ma in sede politica non manca chi teme sovrapposizioni simboliche e fraintendimenti. In ogni caso, la scelta linguistica sarà giudicata alla prova dei fatti, non degli slogan.
In che modo lo strike di Doha ha influito sui negoziati? Ha incrinato la fiducia con un mediatore chiave come il Qatar e, secondo valutazioni rese pubbliche a Washington, ha allontanato Hamas dal tavolo. Figure centrali del negoziato, come Steve Witkoff e Jared Kushner, hanno parlato di un effetto “metastatico”, con contatti divenuti più difficili. Le reazioni di Doha sono state durissime, e il clima diplomatico si è fatto più teso e imprevedibile.
Nel giorno in cui il nome di Eliyahu “Churchill” Margalit torna alle cronache per l’ultima volta, ci resta la misura di quanto fragile sia ogni equilibrio. La tregua non è un atto notarile, è un impegno quotidiano: si nutre di corpi restituiti, di valichi che riaprono, di parole che non incendiano. Il resto è lavoro da cronisti: raccontare senza sconti, chiedere conto delle scelte, tenere insieme memoria e verità. Perché la rinascita, se mai verrà, abbia fondamenta più solide dei proclami.
