La pronuncia della Corte penale internazionale impone all’Italia una verifica profonda: sul caso Almasri, i giudici registrano la mancata ottemperanza agli obblighi di cooperazione e rinviano una scelta sul possibile deferimento, chiedendo entro il 31 ottobre informazioni dettagliate su procedimenti interni rilevanti e sul loro impatto futuro.
Una decisione che segna un passaggio delicato
La Camera preliminare I della Corte penale internazionale ha stabilito che, nel dossier sull’“arresto e consegna” del generale libico Osama Elmasry Njeem (noto come Almasri), l’Italia non ha adempiuto ai propri obblighi di cooperazione. L’atto, comunicato il 18 ottobre 2025, non si traduce però in un immediato deferimento all’Assemblea degli Stati Parte o al Consiglio di Sicurezza: la Corte ha preferito sospendere quella decisione e ha chiesto a Roma di trasmettere entro il 31 ottobre ogni dato utile sui procedimenti interni connessi e sulle possibili ricadute sulla futura collaborazione nelle richieste di arresto e consegna. Questa cornice, che i magistrati dell’Aja hanno costruito con attenzione, tende a preservare il dialogo istituzionale, lasciando uno spazio concreto a chiarimenti puntuali prima di intraprendere eventuali passi più drastici.
Il perimetro delineato a L’Aja arriva dopo mesi intensi. Fin da febbraio, infatti, la CPI aveva aperto un percorso formale sulla presunta inadempienza italiana, intimando di spiegare perché, a fronte di un mandato d’arresto emesso il 18 gennaio 2025, non si fosse proceduto alla consegna del sospetto alla Corte, né a perquisizione e sequestro dei materiali in suo possesso. Con successive comunicazioni, i giudici avevano concesso proroghe ma precisato che il procedimento non poteva essere condizionato sine die da indagini interne, sollecitando l’invio delle osservazioni “il prima possibile”. L’atto del 18 ottobre si inserisce in questa traiettoria: il riconoscimento dell’inadempienza, unito alla sospensione del deferimento, mira a tenere insieme legalità internazionale e considerazione per i passaggi giudiziari domestici.
Dall’arresto a Torino al volo di rientro: la cronologia che ha acceso il confronto
L’innesco del caso è datato 19 gennaio 2025, quando Almasri viene fermato a Torino su base di un mandato della CPI per presunti crimini contro l’umanità e crimini di guerra legati, tra l’altro, alle violenze denunciate nel complesso detentivo di Mitiga, a Tripoli. Due giorni più tardi, il 21 gennaio, l’indagato è rimesso in libertà da un organo giudiziario romano per questioni procedurali legate alla trasmissione del mandato e, subito dopo, rientra in Libia a bordo di un velivolo di Stato. Le richieste della CPI, già allora, puntavano a comprendere perché non si fosse proceduto né alla consegna né al sequestro di eventuali dispositivi o documenti utili all’inchiesta internazionale, mentre a Roma si apriva un fronte politico-giudiziario che avrebbe coinvolto governo e opposizioni.
Nel frattempo, il quadro probatorio pubblico sulla figura del generale si consolidava: la Corte dell’Aja ha reso noto che il mandato – poi pubblicamente “unsealed” – si fonda su ipotesi di torture, omicidi, stupri e altre violenze sessuali ai danni anche di persone migranti, con una sistematicità che, per gli inquirenti, configura i più gravi crimini previsti dallo Statuto di Roma. In parallelo, le autorità italiane hanno sostenuto che il mandato presentasse iniziali imprecisioni temporali successivamente corrette, elemento che avrebbe influito sulle scelte degli uffici giudiziari nazionali nelle ore cruciali tra il fermo e la liberazione. Questo intreccio tra atti giudiziari internazionali e procedure interne resta il fulcro del confronto tra Roma e L’Aja.
Obblighi di cooperazione e il bivio del deferimento
La disputa si innesta su norme precise dello Statuto di Roma: gli articoli dedicati alla cooperazione impongono agli Stati Parte di dare esecuzione alle richieste della Corte per arresto e consegna degli indagati, oltre che per attività accessorie come perquisizioni e sequestri. Quando uno Stato non coopera, la CPI può prenderne atto e valutare il deferimento all’Assemblea degli Stati Parte o al Consiglio di Sicurezza. Già a febbraio, l’Ufficio del Procuratore aveva sollecitato una dichiarazione formale di violazione degli obblighi da parte dell’Italia, mentre autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti – dalla FIDH a REDRESS insieme a realtà libiche – avevano definito il mancato trasferimento come una grave lesione degli impegni assunti con la ratifica dello Statuto. Queste prese di posizione hanno fatto da cornice al successivo carteggio con i giudici dell’Aja.
Nella fase più recente, la Procura della CPI ha depositato osservazioni molto nette, sostenendo che l’Italia avrebbe “impedito alla Corte di esercitare le sue funzioni” non eseguendo la richiesta di arresto e consegna e non adempiendo alle misure ancillari. Il governo italiano, da parte sua, ha rivendicato di aver agito “in buona fede”, contestando in più passaggi l’impostazione del mandato e chiedendo tempo per non interferire con indagini domestiche avviate dal Tribunale dei ministri. Nelle stesse settimane, i giudici dell’Aja hanno ribadito che il procedimento internazionale non può restare sospeso indefinitamente, pur accordando proroghe circoscritte per consentire allo Stato interessato di formalizzare osservazioni complete.
Indagini interne, memorie e scadenze: l’asse Roma–L’Aja
Dopo il gennaio turbolento, il dialogo giudiziario si è misurato con scadenze ravvicinate: prima l’invito a presentare osservazioni entro marzo 2025, poi le richieste di proroga, quindi l’ulteriore sollecito della CPI ad accelerare i depositi. Nel frattempo, a Roma si sono mossi i magistrati del Tribunale dei ministri, acquisendo atti presso Giustizia e Interno per ricostruire le ore tra il fermo a Torino e il rimpatrio. A fine primavera, gli uffici dell’Aja hanno concesso altro tempo ma con un caveat: il procedimento internazionale non può essere ostaggio di tempi interni. In estate, da Palazzo Chigi è arrivata una memoria difensiva che ribadisce l’assenza di violazioni; dall’altra parte, l’accusa internazionale ha replicato con valutazioni opposte.
Sul piano istituzionale, tutto ciò ha alimentato un confronto politico acceso: l’opposizione ha chiesto chiarimenti su ogni passaggio, mentre esponenti del governo hanno criticato il mandato originario, citando incongruenze temporali poi corrette dalla CPI quando l’atto è stato reso pubblico. Il filo rosso resta la domanda di fondo: come conciliare l’esigenza di sicurezza nazionale e di garanzia delle procedure interne con l’obbligo, sancito dallo Statuto, di cooperare con la giurisdizione internazionale sulle ipotesi di crimini gravissimi? È su questo crinale che si colloca la nuova richiesta dell’Aja di ricevere entro il 31 ottobre informazioni sugli sviluppi interni e sul loro possibile impatto sulla futura cooperazione.
Le vittime e la giustizia sovranazionale
Il cuore del fascicolo resta la condizione delle persone detenute in Libia. Il mandato dell’Aja, reso noto in più lingue, delinea accuse su torture, stupri, omicidi e altri abusi connessi anche alla gestione del complesso di Mitiga. In questo contesto, realtà della società civile internazionale hanno rimarcato che la giustizia della CPI vive sulla cooperazione degli Stati: senza arresti e consegne, i processi non decollano e la ricerca della verità per le vittime si allontana. Il messaggio, scandito da associazioni come la FIDH e da network legali indipendenti, è netto: la lotta all’impunità richiede, prima di tutto, esecuzione leale degli impegni presi sul piano multilaterale.
Nei giorni scorsi è arrivato anche un segnale da Strasburgo: una persona sopravvissuta alle violenze, oggi residente in Italia, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contestando il mancato allineamento dell’ordinamento italiano agli obblighi di cooperazione con la CPI nel caso Almasri. L’iniziativa, sostenuta tra gli altri dall’European Center for Constitutional and Human Rights, aggiunge un tassello europeo a una vicenda che ha già un pronunciato respiro internazionale. Per chi chiede giustizia, la traiettoria è chiara: senza consegne e senza prove sequestrate, il rischio è che la tutela effettiva dei diritti umani scivoli in secondo piano rispetto a calcoli politici di breve periodo.
Prospettive e incroci istituzionali
Guardando ai prossimi passi, il calendario è dettato dalla scadenza del 31 ottobre. Le informazioni che Roma invierà alla Camera preliminare I saranno decisive per capire se il percorso rimarrà nell’alveo di un confronto tecnico-giuridico o se si aprirà la via del deferimento in sede politica multilaterale. Sullo sfondo, resta la dialettica tra le argomentazioni del governo italiano – concentrate sulle criticità originarie del mandato e sulle garanzie dei procedimenti interni – e la ferma posizione della CPI, che in più documenti ha evidenziato la centralità dell’obbligo di cooperazione per consentire alla giustizia internazionale di funzionare. Le prossime settimane diranno se prevarrà la strada del chiarimento o quella del contenzioso.
Chiarimenti rapidi: domande e risposte essenziali
Che cosa ha stabilito, in sostanza, la Corte penale internazionale? Ha registrato la non ottemperanza dell’Italia agli obblighi di cooperazione nel caso Almasri, rinviando la scelta su un eventuale deferimento e chiedendo entro il 31 ottobre informazioni su procedimenti interni e sul loro impatto sulla futura collaborazione.
Perché l’arresto non si è tradotto nella consegna all’Aja? Secondo gli atti ricostruiti nei mesi scorsi, la liberazione è derivata da profili procedurali interni e da contestazioni sulle prime versioni del mandato, poi corretto. La CPI ha comunque richiamato l’obbligo di cooperare alle richieste di arresto, consegna e sequestro.
Quali sono i rischi per l’Italia sul piano internazionale? Se le spiegazioni non risultassero convincenti, i giudici potrebbero valutare il deferimento all’Assemblea degli Stati Parte o al Consiglio di Sicurezza, una scelta eminentemente politica ma prevista dallo Statuto di Roma per i casi di persistente non cooperazione.
Qual è il ruolo delle vittime e quali novità si registrano in Europa? Una persona sopravvissuta agli abusi ha adito la Corte europea dei diritti dell’uomo per contestare la condotta italiana; il ricorso aggiunge un livello di scrutinio esterno, affiancando le indagini della CPI e mantenendo alta l’attenzione su verità e responsabilità.
Le carte, le scadenze, le memorie: tutto serve, ma non basta. Dietro il lessico asciutto di ordinanze e mandati ci sono vite spezzate, famiglie che attendono risposte, comunità che chiedono che la parola giustizia non resti un proposito. Per noi, che raccontiamo ogni giorno l’attrito tra diritti e potere, questo caso è un banco di prova della credibilità delle istituzioni: l’Italia è chiamata a spiegare con precisione, la CPI a esercitare con equilibrio la propria funzione. Tra il dovere di cooperare e il bisogno di proteggere la legalità interna, la differenza la faranno la trasparenza dei fatti e la lealtà verso gli impegni presi davanti alla comunità internazionale.
