Alla vigilia del faccia a faccia alla Casa Bianca del 17 ottobre 2025, Donald Trump ha parlato a lungo con Vladimir Putin, ha rilanciato un possibile vertice a Budapest e ha frenato sui Tomahawk per Kyiv, mentre Volodymyr Zelensky mantiene un cauto scetticismo.
Un vertice che prende forma
La regia diplomatica si muove su due binari: da un lato il colloquio telefonico definito “produttivo” tra Trump e Putin, dall’altro i preparativi per un possibile incontro in Ungheria. Fonti del Cremlino fanno sapere che l’iniziativa della chiamata è partita da Mosca e che Budapest è stata accolta come sede papabile, con l’indicazione che i contatti tra i team avverranno già nei prossimi giorni. Yuri Ushakov ha parlato di una conversazione “franca e improntata alla fiducia”, dettaglio confermato anche da cronache statunitensi che ricordano come i due leader si siano già visti in Alaska ad agosto, senza risultati definitivi. Dietro le quinte, si cerca di costruire un formato che non bruci l’attesa ma la trasformi in leva negoziale.
In questo schema entrano Marco Rubio e Sergei Lavrov, incaricati di avviare colloqui preparatori “nei prossimi giorni” per dare sostanza alla cornice del summit. L’informazione, diffusa dal Cremlino e ripresa da agenzie internazionali, si inserisce in una settimana densa di segnali: Trump vuole mettere a frutto il momentum diplomatico maturato in Medio Oriente e tradurlo in progressi sul fronte ucraino, mentre Zelensky atterra a Washington per una trattativa che ruota attorno a missili a lungo raggio e difesa dell’infrastruttura energetica. L’asticella è alta: chi siede al tavolo deve dimostrare che la pressione può diventare percorso di pace.
La telefonata, la regia e i dossier sul tavolo
La chiamata tra Trump e Putin ha toccato due capitoli centrali: i rapporti USA–Russia nel “dopo guerra” e il nodo dei Tomahawk. Secondo ricostruzioni convergenti, Putin ha avvertito che l’eventuale invio dei missili a Kyiv danneggerebbe pesantemente le relazioni bilaterali senza cambiare gli equilibri sul terreno. Trump, dal canto suo, ha ribadito che le scorte statunitensi non possono essere “svuotate”, lasciando intendere che la decisione non sarà immediata. È una danza di segnali: minacce di escalation, prudenza sulle risorse, promesse di un negoziato a breve raggio.
Nel frattempo, Zelensky scandisce l’agenda di Washington: incontri con aziende della difesa e del comparto energetico, focus su sistemi antiaerei e resilienza della rete, mentre il Paese affronta nuovi attacchi su impianti del gas e infrastrutture critiche. Le cronache internazionali collocano l’ultima ondata di droni e missili russi alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca, con conseguenti blackout in varie regioni ucraine e danni a siti strategici. La strada verso la trattativa passa, inevitabilmente, dalla capacità di resistere al fuoco incrociato.
Tomahawk, fra leva diplomatica e scorte americane
Nelle parole pubbliche di Trump affiora un doppio registro: apertura tattica e freno operativo. Da un lato il Presidente individua nei Tomahawk una possibile pressione su Mosca, dall’altro avverte che “servono anche agli Stati Uniti”, evocando il tema delle scorte e delle priorità nazionali. L’Associated Press e il Washington Post hanno dato conto di questa esitazione, maturata dopo la telefonata con Putin, e dell’idea di un summit in Ungheria volto a testare se la minaccia di nuovi armamenti possa tradursi in concessioni politiche. È una leva che funziona solo se credibile e sostenibile nel tempo.
Gli analisti ricordano inoltre che la gittata di circa 1.600 chilometri renderebbe i Tomahawk capaci di colpire in profondità, ma che restano nodi tecnici e logistici: piattaforme di lancio, addestramento, integrazione e tempistiche di fornitura. Anche su questo, la stampa internazionale ha rilevato più di una perplessità e sottolineato che la disponibilità e l’uso operativo non sarebbero istantanei. La deterrenza è fatta di messaggi, certo, ma anche di catene di approvvigionamento e manuali d’uso.
Le minacce e le cautele di Mosca
Dal Cremlino arrivano avvisi netti. Vladimir Putin ha sostenuto che l’eventuale consegna dei Tomahawk segnerebbe “un nuovo livello di escalation” nei rapporti con Washington, pur non cambiando – secondo lui – il quadro tattico sul campo. A fare eco, il portavoce Dmitry Peskov ha affermato che la Russia “farà tutto” per garantire la propria sicurezza, indicando che i militari sanno come rispondere. Parole che puntano a raffreddare l’opzione dei missili e a indirizzare la partita sul terreno della pressione psicologica.
Non è solo retorica: Mosca collega ogni discorso sui Tomahawk alla credibilità del canale politico con Trump. La stessa triade di messaggi – minaccia di ritorsione, minimizzazione dell’impatto militare, invito a non “oltrepassare la linea” – è ricorsa in più interventi pubblici nelle ultime settimane. È il copione classico della diplomazia di crisi: avanzare precondizioni mentre si afferma di volere una soluzione politica.
Kiev tra scetticismo e resilienza
Zelensky non si nasconde dietro formule di circostanza. Nelle ore precedenti all’incontro con Trump, il Presidente ucraino ha scritto su X che “appena si parla di Tomahawk, Mosca si affretta a riaprire il dialogo”, segnalando di leggere nella minaccia dei missili un pungolo diplomatico più che un punto d’arrivo. La sintesi è chiara: uno spiraglio c’è, ma serve continuità nei sistemi di difesa aerea e nella protezione della rete energetica contro gli attacchi russi. La pace, per Kyiv, passa dalla sicurezza delle sue città.
Nel frattempo, il governo ucraino intensifica i colloqui con i produttori statunitensi di armamenti e con le società dell’energia, cercando intese industriali che aumentino la capacità di resistenza in vista dell’inverno. Le cronache di RFE/RL e di altre testate confermano una strategia a due livelli: chiedere armi sofisticate e, insieme, costruire filiere che rendano il Paese meno vulnerabile ai blackout provocati da droni e missili. Resistere oggi per trattare domani: è così che Kyiv prova a piegare il tempo a suo favore.
L’eco del Medio Oriente e il calcolo politico
Il contesto mediorientale pesa sulla partita. Dopo la tregua tra Israele e Hamas, rivendicata da Trump come un successo, il Presidente americano ha portato in Israele e in Egitto un messaggio di chiusura del conflitto e di “nuova alba” regionale. Questa narrativa, rilanciata da media internazionali, è diventata la cornice con cui la Casa Bianca tenta ora di approcciare anche la guerra in Ucraina: creare slancio, poi tradurlo in concessioni verificabili. Ma ciò che vale a Gaza non necessariamente si sovrappone al Donbass.
Non mancano, inoltre, dossier incrociati. Trump ha affermato che il premier indiano Narendra Modi avrebbe promesso di interrompere gli acquisti di petrolio russo, ma fonti ufficiali indiane hanno ridimensionato o smentito l’esistenza di un impegno formale. Il tema energetico resta, quindi, uno strumento di pressione più che un fatto acquisito: se i grandi acquirenti rallentano, cambia il bilancio di guerra di Mosca; se non lo fanno, la leva resta teorica.
Cosa aspettarsi nelle prossime settimane
La road map è chiara nelle intenzioni: inviare i propri emissari – Rubio e Lavrov – a definire un perimetro negoziale, quindi verificare a Budapest se esista uno spazio reale per un compromesso. Tra i fattori che peseranno ci sono l’intensità degli attacchi russi alle infrastrutture ucraine, la capacità di Kyiv di proteggere la rete e, soprattutto, la credibilità dell’arma Tomahawk come leva politica e non solo militare. La diplomazia, qui, è fatta anche di tempi di consegna e scorte disponibili.
Al netto dei proclami, a Washington prevale un realismo prudente: il Presidente fa sapere che i missili “servono anche a noi”, mentre i consiglieri studiano opzioni intermedie, dall’aumento di munizionamento a lungo raggio già in pipeline a rafforzamenti selettivi della difesa aerea. In parallelo, The Washington Post e l’AP registrano il messaggio che Mosca invia agli Stati Uniti: i Tomahawk non cambieranno il fronte, ma cambierebbero – e molto – la relazione bilaterale. Un avvertimento che è, di per sé, un’ammissione della loro forza simbolica.
Domande lampo, risposte chiare
I Tomahawk arriveranno davvero a Kyiv? La decisione non è presa. Trump ha usato i missili come leva negoziale e ha sottolineato la necessità di preservare le scorte degli USA. Il Cremlino ha reagito con toni duri, segnalando una possibile escalation diplomatica. Molto dipenderà dall’esito dei colloqui preparatori Rubio–Lavrov e dal vertice di Budapest, oltre che dal ritmo degli attacchi russi contro l’energia ucraina, che mantengono la pressione alta sul tavolo.
Che cosa vuole ottenere Mosca? Putin mira a bloccare l’opzione Tomahawk e a preservare uno spazio di relazione con Washington, sostenendo che l’invio non muterebbe gli equilibri sul campo. Parallelamente, Peskov ribadisce che la Russia “farà tutto” per la propria sicurezza. È un doppio messaggio: dissuasione politica verso gli USA e rassicurazione interna sulla capacità militare. Il risultato pratico è temporeggiare, in attesa di verificare la tenuta della minaccia americana.
Zelensky ha un margine di manovra? Sì, ma legato a risultati misurabili: nuove difese aeree, resilienza della rete energetica e, se possibile, capacità di colpire più lontano. Il Presidente ucraino ha segnalato che ogni discussione sui Tomahawk spinge Mosca a riaprire il dialogo, ma non basta: servono forniture, accordi industriali e un ombrello politico chiaro a Washington. La sua strategia punta a trasformare la minaccia di armare Kyiv in un incentivo concreto per la trattativa.
Che ruolo gioca il successo in Medio Oriente? È l’argomento con cui Trump chiede fiducia: la tregua tra Israele e Hamas come prova che l’America sa chiudere i conflitti. Ma la guerra in Ucraina ha dinamiche diverse: fronti statici, logoramento industriale, dipendenze energetiche europee. L’effetto “slancio” può aiutare, purché non venga scambiato per copia-incolla diplomatico. Servono meccanismi di verifica e una sequenza di passi graduali, non annunci.
Uno sguardo che non si rassegna
Il racconto di queste ore somiglia a una corda tesa tra ambizione e prudenza. Trump fiuta l’occasione di un secondo colpo diplomatico, Putin testa i limiti dell’avversario e Zelensky resiste nel punto in cui la diplomazia incontra la realtà dei blackout e delle sirene. Noi guardiamo a Budapest senza illusioni né cinismo: con la convinzione che le parole contano solo se trasformate in atti verificabili e che ogni giorno guadagnato alla non-guerra è un giorno strappato alla contabilità del dolore.
