Budapest si prepara a un appuntamento che ambisce a ridisegnare gli equilibri globali: l’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin. In controluce, la traiettoria di Viktor Orbán, da giovane liberale a leader della cosiddetta “democrazia illiberale”, torna al centro di una scena internazionale che lo vede abile regista e protagonista.
Una capitale scelta per trattare la guerra
Il futuro summit tra Trump e Putin nella capitale ungherese, atteso nelle prossime settimane, è stato salutato da Orbán come la conferma del ruolo del Paese quale interlocutore “pro-pace”, dopo la mancata intesa nell’incontro estivo in Alaska. Il Cremlino ha parlato di preparativi ancora “consistenti”, ma dell’obiettivo non si discute: il conflitto in Ucraina resta il dossier centrale sul tavolo. Il premier ungherese rivendica che soltanto Budapest offrirebbe oggi in Europa le condizioni politiche per un faccia a faccia di questo tipo, un’affermazione che ha acceso reazioni contrastanti nelle cancellerie del continente.
La scelta della sede incrocia una stagione segnata da tensioni tra l’Ungheria e i partner dell’Unione. Mentre Budapest rifiuta il transito di armi verso Kiev e spinge per un cessate il fuoco negoziato, gli alleati la accusano di indebolire la compattezza europea sulle sanzioni. Nello stesso tempo, l’annuncio dell’incontro, destinato a proseguire il dialogo avviato a metà agosto, consolida l’immagine di Orbán come facilitatore tra potenze in competizione, anche grazie ai suoi rapporti personali con entrambi i leader.
Dalla promessa liberale alla teoria dello Stato “illiberale”
All’inizio della carriera, il giovane Orbán era simbolo della stagione anti-comunista e beneficiò del sostegno filantropico di George Soros, che finanziò studi e progetti per la società civile. Anni dopo, la relazione si ribaltò in un antagonismo frontale, fino al trasferimento della Central European University a Vienna, dopo un duro braccio di ferro legislativo. La vicenda ha segnato uno spartiacque: per i critici rappresenta l’emblema della stretta contro l’autonomia accademica, per i sostenitori la riaffermazione della sovranità normativa ungherese.
Il momento dottrinario arriva nel luglio 2014, al raduno di Băile Tușnad, quando il premier teorizza la costruzione di uno “Stato illiberale” fondato su valori nazionali. Quella piattaforma, presentata come alternativa europea ispirata a modelli extra-occidentali, ha legittimato una ricalibratura dei pesi e contrappesi costituzionali, rivendicata dal governo come risposta alle sfide della globalizzazione, ma contestata da organismi internazionali per l’impatto sullo Stato di diritto.
Gli ingranaggi di un potere che riscrive le regole
Dalla straripante maggioranza del 2010, Fidesz ha ridisegnato il perimetro istituzionale: nuova Costituzione, modifiche elettorali, rafforzamento degli organi di controllo fedeli all’esecutivo e una legislazione sui media accentrata in autorità nominate con mandati lunghi. Organismi come Human Rights Watch, il Consiglio d’Europa e varie testate europee hanno denunciato l’erosione dei contrappesi, mentre Budapest ribadisce la piena legittimità delle riforme in base al mandato elettorale. È la fotografia di un sistema dove il voto resta, ma la competizione è ricalibrata a favore del governo.
La riorganizzazione dell’ecosistema mediatico, inaugurata già nel 2010 con la creazione di un’autorità di vigilanza potente e politicamente allineata, ha avuto un impatto strutturale sul pluralismo dell’informazione. Contestualmente, norme su società civile e finanziamenti esteri hanno stretto gli spazi di azione di Ong e think tank indipendenti. Le contestazioni internazionali, inclusi rilievi della Commissione europea, non hanno fermato l’avanzata di un impianto che concentra la leva esecutiva e amministrativa in poche mani.
La rete transatlantica: dal Danubio a Washington
Negli Stati Uniti, porzioni significative del conservatorismo hanno guardato all’esperimento ungherese come a un laboratorio politico. Dalla Heritage Foundation sono arrivati giudizi espliciti: l’Ungheria è stata definita “il modello” per una possibile istituzionalizzazione dell’agenda conservatrice, in particolare su famiglia, istruzione e centralità dell’esecutivo. Queste posizioni, rilanciate in interviste e interventi pubblici, si sono intrecciate con l’elaborazione di piani di governo che prevedono una profonda rotazione della burocrazia e un ripensamento del ruolo delle agenzie federali.
Il dialogo è stato coltivato anche a Budapest, attraverso think tank vicini all’esecutivo e una fitta agenda di incontri, fino alla stagione in cui l’inquilino della Casa Bianca ha moltiplicato i riferimenti al “modello ungherese”. Molti analisti statunitensi e europei hanno però letto in questo travaso un rischio di “backsliding” democratico, rilevando similitudini nelle tecniche di concentrazione del potere e nella gestione del dissenso. Il dibattito resta acceso e segna una frattura culturale transatlantica.
La partita europea e l’architettura dei Patrioti
Allontanato dal PPE nel 2021, Orbán ha ricomposto gli equilibri alla sua destra favorendo la nascita, l’8 luglio 2024, del gruppo Patriots for Europe, insieme a Andrej Babiš e Herbert Kickl. L’adesione rapida di forze come il Rassemblement National e la Lega ha proiettato i Patrioti ai vertici dell’Eurocamera, chiudendo di fatto l’esperienza di Identità e Democrazia. Una mossa che ha ridisegnato gli schieramenti e complicato le geometrie con i conservatori guidati da Giorgia Meloni.
La nuova alleanza è più di un contenitore parlamentare: è un messaggio politico, capace di fare massa critica su dossier chiave come migrazioni, transizione energetica e rapporto con le istituzioni comunitarie. La cabina di regia che Budapest rivendica in questa costellazione riflette l’obiettivo di esercitare influenza non solo nel Parlamento, ma anche sui governi nazionali, puntando a trasformare i singoli consensi elettorali in una piattaforma continentale coerente.
Tra Mosca e Bruxelles: veti, energia e sanzioni
Nel mosaico europeo, Orbán ha usato con frequenza la leva del veto su pacchetti sanzionatori alla Russia. Emblematico l’episodio di marzo 2025, quando l’Ungheria ha condizionato il rinnovo delle misure restrittive alla rimozione di alcuni nomi, ottenendo un compromesso con quattro cancellazioni. È un metodo negoziale che esaspera gli alleati ma produce risultati tangibili per Budapest, rafforzando l’idea di un Paese capace di capitalizzare la regola dell’unanimità.
Questo approccio si combina con la linea “pro-pace” rivendicata dal governo, che rifiuta invii d’armi e difende i legami energetici con Mosca. Per i critici, la postura ungherese indebolisce Kiev e premia il Cremlino; per i sostenitori, è l’unico realismo possibile per evitare un’escalation incontrollata. In tale cornice, la regia di un incontro Trump–Putin a Budapest diventa un tassello coerente di una strategia che privilegia intese pragmatiche a geometria variabile rispetto ai binari del multilateralismo classico.
La rottura con la giustizia penale internazionale
Nel 2025 l’Ungheria ha avviato il ritiro dalla Corte penale internazionale, notificato il 2 giugno dopo il voto parlamentare del 20 maggio. La decisione, salutata dal governo come difesa della sovranità, è stata criticata da organizzazioni per i diritti umani e da vari partner europei, che ne denunciano il segnale politico e le conseguenze sulla lotta all’impunità. Il recesso diverrà efficace a un anno dalla notifica, mantenendo intatti nel frattempo gli obblighi di cooperazione.
L’uscita ha alimentato interrogativi concreti in vista dell’arrivo a Budapest di Vladimir Putin, colpito da mandato della Cpi. Le autorità ungheresi hanno assicurato che l’evento potrà svolgersi senza intoppi, rivendicando il primato delle scelte statali e la continuità dei rapporti bilaterali con Mosca. Il tema incrocia sensibilità giuridiche e politiche: tra la tutela dell’ordine internazionale e le ragioni di una realpolitik che l’esecutivo ungherese propone come via maestra per uscire dallo stallo.
Opposizioni interne e fratture sociali
Dentro i confini nazionali, l’architettura costruita in quindici anni non è priva di incrinature. La figura di Péter Magyar, già interno all’establishment di governo, ha intercettato il malcontento di una parte di elettorato stanco di corruzione percepita e stagnazione salariale. Sullo sfondo, riforme controverse in materia di diritti civili, come le restrizioni alle iniziative LGBTQ+, hanno spaccato l’opinione pubblica e attirato critiche internazionali, mentre il governo difende tali misure come espressione di una precisa identità culturale.
È un confronto che non si esaurisce nelle aule parlamentari. Media consolidati nella sfera governativa, revisione dei confini uninominali e norme sui finanziamenti politici hanno ridisegnato la competizione, costringendo le opposizioni a strategie nuove. La forza del racconto “ordine, famiglia, sicurezza” continua a pesare nel consenso, ma l’usura economica e l’inquietudine generazionale introducono variabili che potrebbero incidere sulle prossime scadenze elettorali.
Domande lampo per orientarsi
Perché proprio Budapest per il summit?
Perché l’Ungheria rivendica una posizione “pro-pace” e intrattiene rapporti aperti con entrambe le parti. La narrativa ufficiale sostiene che ciò renda la capitale il terreno più neutro in Europa per un confronto diretto tra i leader.
Cosa cambia con l’uscita dalla Cpi?
Il ritiro diventa effettivo un anno dopo la notifica, quindi gli obblighi restano fino a quella data. Sul piano politico, il segnale è di distanziamento dalle istituzioni di giustizia internazionale, con ricadute sui rapporti con i partner Ue.
I “Patrioti” in Europa sono un blocco compatto?
Sono una galassia ampia, cresciuta rapidamente dopo il 2024. La coesione dipende dalla capacità di tradurre l’intesa su identità e sovranità in voti unitari su economia, energia e relazioni estere.
Qual è l’impatto dei veti ungheresi sulle sanzioni?
Hanno ritardato i rinnovi e ottenuto concessioni puntuali, come la rimozione di alcuni nominativi. È una tattica che valorizza l’unanimità Ue, ma irrita gli altri Stati membri.
L’influenza di Orbán su Washington è reale?
Una parte del conservatorismo americano cita l’Ungheria come riferimento programmatico. Il dialogo è intenso, ma genera un dibattito acceso negli Stati Uniti sulla tenuta delle garanzie democratiche.
Se il summit dovesse concretizzarsi, Budapest diventerebbe crocevia di un metodo politico che privilegia i rapporti personali tra leader forti e accordi “rapidi”, spesso fuori dalle consuetudini multilaterali. Lì si misurerà non solo l’abilità diplomatica di Orbán, ma anche la resilienza europea nel tenere insieme sicurezza, principi e interessi. È questo l’esame più severo: trasformare la ricerca della pace in un risultato, senza rinunciare all’ossatura dello Stato di diritto.
