Aveva un nome che bastava da solo a evocare scintille, fumo che sale dalla Les Paul, missili sparati dalla paletta e un sorriso sfrontato sotto il trucco d’argento. Ace Frehley, chitarra e immaginario dei Kiss fin dalla prima ora, è morto giovedì 16 ottobre 2025 a Morristown, New Jersey, 74 anni, circondato dai suoi cari. La famiglia ha dato l’annuncio; nelle ultime settimane aveva sofferto le conseguenze di una caduta domestica. Nessun dettaglio morboso, solo il fatto decisivo: lo Spaceman non c’è più.
La notizia ferisce anche chi non ha mai indossato il trucco: Frehley è stato una bussola per generazioni di chitarristi, un’icona pop capace di rendere teatrale l’idea di band. Se chiudete gli occhi sentite il colpo secco di “Detroit Rock City”, il coro di “Rock and Roll All Nite”, la sua chitarra che fuma come un drago di latta: immagini che continuano a vibrare oggi, mentre salutiamo un artista che ha trasformato palco e persona in un unico racconto di energia e ironia.
Le ultime settimane
Non era un fulmine a ciel sereno: a fine settembre Frehley aveva annullato uno show parlando di una “caduta” e il 6 ottobre erano saltate tutte le date 2025, su indicazione dei medici. Poi il silenzio, fino alla scomparsa di giovedì. Oltre alla sede e all’età, l’unico elemento che resta nei documenti pubblici è la caduta recente; altre ipotesi circolano, ma non ci sono conferme ufficiali. Restiamo ai fatti.
I compagni di una vita hanno parlato con il registro dell’affetto, senza retorica. Paul Stanley e Gene Simmons hanno definito Ace “un soldato del rock essenziale e insostituibile”, parole che raccontano meglio di qualsiasi curriculum quanto quella chitarra abbia inciso sulla storia dei Kiss e sull’educazione sentimentale di milioni di ascoltatori. E voi, qual è il vostro primo ricordo di Ace? Un riff, un assolo, un costume, una risata? Scrivetecelo: le storie personali sono la memoria più tenace.
Un suono e un’immagine scolpiti nel rock
Dietro l’icona c’era il progettista della stessa icona. Frehley disegnò il logo dei Kiss, quelle due “S” come fulmini che hanno attraversato mezzo secolo di poster, magliette, copertine. La sua chitarra fumante, i razzi dalla paletta, l’andatura ciondolante da astronauta venuto dal Bronx: elementi che hanno reso lo Spaceman un personaggio pop unico, imitato e mai davvero raggiunto.
Sotto il trucco c’era un musicista con gusto melodico e mano pesante quando serviva. “New York Groove” resta uno dei brani-identità del suo percorso solista; con i Kiss ha inciso dischi-cardine e dato alla band un vocabolario di assoli riconoscibili dopo due note. Il palcoscenico era il suo elemento naturale: tra fumo, luci e una teatralità spudorata, sapeva strappare il sorriso e nello stesso istante piantare un riff che non ti lasciava più.
Dall’annuncio sul giornale al mito globale
Paul Daniel Frehley, nato nel Bronx nel 1951, entra nella storia quando risponde a un annuncio di Paul Stanley nel 1972. Da lì, con Stanley, Gene Simmons e Peter Criss, nel 1973 nasce la creatura chiamata Kiss. Contribuisce ai primi nove album, poi nel 1982 molla il colpo, stanco di una macchina diventata più grande degli uomini; rientrerà per l’epico reunion tour 1996–2002. Storia turbolenta? Certo. Storia vera del rock? Anche.
Il riconoscimento istituzionale arriva nel 2014 con l’ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame. Al di là dei contrasti interni (che nel rock sono quasi un genere letterario), il contributo di Frehley è scolpito nella costruzione del suono Kiss: spigoli, melodia, effetto speciale. E nel sorriso di chi, in platea, si è sentito per una notte grande quanto il Madison Square Garden.
Gli ultimi progetti e ciò che resta
Frehley non aveva smesso di incidere: “10,000 Volts” è del 2024, un album che mostra un artista ancora in presa diretta con il proprio linguaggio. In autunno, prima della scomparsa, aveva cancellato i concerti rimasti in agenda per problemi di salute; poi l’addio. La sua band madre, i Kiss, è attesa a dicembre ai Kennedy Center Honors: un riconoscimento che oggi suona ancora più carico di significato.
Chi resta? La moglie Jeanette, la figlia Monique, il fratello Charles, la sorella Nancy Salvner e una famiglia allargata che oggi rivendica, prima di tutto, il suo modo di ridere e far ridere. Restiamo anche noi, che abbiamo messo una moneta nel jukebox e ci siamo sentiti capaci di qualsiasi cosa per tre minuti e mezzo. È questo, alla fine, il dono dei grandi: ti consegnano un pezzo di coraggio e ti dicono «portalo tu».
