La stretta europea sui nomi “che sanno di carne” scuote il mondo del plant based: dal Parlamento arrivano segnali chiari, dalle aziende italiane una preoccupazione altrettanto netta. Sullo sfondo, un mercato in crescita e un dibattito che intreccia trasparenza, scelte alimentari e costi industriali.
Un voto che cambia il lessico del cibo
All’Europarlamento, l’8 ottobre 2025 a Strasburgo, è passato un emendamento alla revisione del regolamento Ocm che punta a riservare termini come “burger”, “bistecca” o “salsiccia” ai soli prodotti che contengono carne. La misura non è definitiva: seguiranno i negoziati con Consiglio e Commissione, e i governi dovranno esprimersi. Diversi media internazionali e italiani, da testate come Reuters, AP, The Guardian, ANSA e la Repubblica, hanno raccontato l’iter e il senso politico del voto, sottolineando che il percorso legislativo dovrà ora entrare nel vivo dei triloghi e delle mediazioni tecniche. In aula, si è richiamato il principio della chiarezza per i consumatori; fuori, è ripartito il confronto pubblico sulla reale utilità di un divieto così ampio.
A differenza del 2020, quando Bruxelles respinse un analogo bando sulle denominazioni vegetali, questa volta l’indirizzo è mutato. Il provvedimento, sostenuto da una parte del mondo agricolo, si collega a un disegno più ampio sulla riforma dell’Ocm e sul riequilibrio dei rapporti di forza nella filiera. Parallelamente, i gruppi di consumatori ricordano che la confusione è minima quando in etichetta appare chiaramente “vegetale” o “vegano”: lo ribadisce l’Organizzazione Europea dei Consumatori (BEUC), che cita rilevazioni dove la maggioranza non si sente fuorviata da espressioni come “veggie burger”, a patto di una chiara indicazione di origine. In questo senso, il precedente respingimento del 2020 e le analisi attuali di BEUC aiutano a capire la posta in gioco: un equilibrio tra linguaggio, trasparenza e abitudini d’acquisto.
La voce delle imprese: l’allarme di Biolab
Nel giorno del voto europeo, la testimonianza che arriva da Gorizia è schietta. Massimo Santinelli, amministratore delegato di Biolab, una delle realtà italiane più strutturate nel plant based, prevede un brusco rallentamento per le referenze vegetariane e vegane di più largo consumo. Il motivo, sostiene, è l’effetto-attrito sui cosiddetti “flexitariani”, quel pubblico che sceglie spesso l’alternativa vegetale proprio perché riconosce, anche nel nome, una modalità d’uso familiare. Se “burger di soia” o “polpette di ceci” dovessero sparire dalle etichette, l’azienda teme minor appetibilità dei prodotti, campagne da ripensare e scaffali più “silenziosi” per chi si affaccia al segmento con curiosità e pragmatismo. Le posizioni sono state raccolte in un’intervista all’Adnkronos, a poche ore dal voto.
L’impatto, per Biolab, non sarebbe solo comunicativo. Cambiare packaging, rifare etichette e materiali promozionali significa costi immediati; ridefinire i contratti MDD con la grande distribuzione significa tempi e incertezze. Nella stessa intervista, Santinelli evidenzia anche un fraintendimento ricorrente: mettere nello stesso calderone il tema lessicale dei prodotti vegetali con quello della carne coltivata. Per l’imprenditore sono “due mondi diversi”, con mercati, regole e filiere che non coincidono; un divieto linguistico sulle alternative vegetali, insiste, non chiarisce ma appanna. Nel frattempo, l’azienda rivendica crescita robusta e progetti in corso, convinta di poter far sentire la propria voce nelle sedi competenti europee.
Il contesto giuridico: perché la Francia fa scuola (e monito)
Negli ultimi anni la battaglia sui nomi si è giocata anche a livello nazionale. In Francia, due decreti che volevano bandire parole come “steak” o “escalope” dai prodotti vegetali sono stati prima sospesi e poi annullati dal Conseil d’État, dopo un passaggio in Corte di giustizia dell’Unione europea: la cornice comunitaria, hanno chiarito i giudici, è già armonizzata e non lascia spazio ai divieti unilaterali dei singoli Stati. Quelle pronunce spiegano perché, oggi, la partita si giochi sul piano europeo, dove l’intervento normativo può davvero incidere sul mercato unico. La lezione francese suggerisce inoltre che i tempi della giustizia e della regolazione sono lunghi, mentre i costi per le imprese sono immediati.
A questo si aggiunge un precedente di segno diverso: la stretta già esistente sulle denominazioni lattiero-casearie (“latte”, “formaggio”, “yogurt”), che nell’Unione sono riservate a prodotti di origine animale. Quel solco regolatorio ha spesso fatto da paragone per chi chiede un’analoga tutela delle parole “carnivore”. Ma i tribunali europei, nelle cause sul meat sounding, hanno indicato un limite chiaro: senza una disciplina comune, i divieti nazionali generano confusione e barriere. Da qui il nuovo passaggio politico di Strasburgo, che prova a definire a livello UE dove termina la creatività di marketing e dove inizia il rischio di fraintendimento.
Numeri e prospettive: il mercato non è univoco
Mentre Biolab stima un possibile contraccolpo, il plant based europeo resta un comparto vivace, con crescite in diversi Paesi. Dati elaborati dal Good Food Institute Europe indicano, ad esempio, che in Italia le vendite retail delle principali categorie vegetali hanno toccato nel 2024 circa 639 milioni di euro, in aumento rispetto al 2022. Sul perimetro più ampio di sei mercati chiave europei, il valore complessivo 2023 ha superato i 5,4 miliardi, con segnali di consolidamento in Germania e una tenuta di Francia e Spagna. Questi trend raccontano una domanda che, pur tra oscillazioni e inflazione, continua a cercare alternative accessibili e ben presentate a scaffale.
Per comprendere la portata industriale italiana, basti ricordare il recente ingresso di FVS Sgr nel capitale di Biolab, con l’obiettivo dichiarato di accelerare crescita ed espansione internazionale. L’azienda friulana, nata nel 1991, opera con più stabilimenti tra Gorizia e San Daniele del Friuli e punta a chiudere il 2025 intorno ai 26 milioni di euro di ricavi, numeri riportati da cronache economiche locali e nazionali. È su questo tessuto produttivo — fatto di MDD, export e specializzazione — che un cambio lessicale può pesare: non solo per la spesa di riposizionare i nomi, ma per la capacità di farsi capire al primo sguardo dal cliente generalista, quello meno “militante” e più curioso.
Domande lampo, risposte schiette
Quando potrebbe cambiare davvero l’etichetta? Il voto dell’8 ottobre 2025 non è l’ultimo passaggio: ora si apre la fase negoziale con Consiglio e Commissione e servirà un’intesa tra le istituzioni europee e i 27 Stati membri. In più, l’applicazione pratica richiederà tempi tecnici per definire liste, codifiche e periodi transitori. Alcune testate indicano che i negoziati potrebbero aprirsi a stretto giro, ma l’entrata in vigore dipenderà dal calendario dei triloghi e dalle scelte dei governi nazionali.
Chi sarà impattato di più dal divieto dei nomi “meat sounding”? Le aziende che vendono a scaffale di massa, specie in private label, e che intercettano consumatori “flessibili” nelle scelte alimentari. Per loro il nome comunica modalità d’uso, ricettabilità, posizionamento. Cambiarlo significa rifare packaging, creatività e materiali punto vendita. Biolab, per bocca dell’amministratore delegato Santinelli, stima un freno alla crescita e costi immediati, soprattutto per linee ad alto volume e per i mercati esteri dove l’azienda esporta una quota rilevante del fatturato.
Questo riguarda anche la carne coltivata? Nel dibattito pubblico spesso si sovrappongono i dossier, ma l’oggetto del voto è il lessico dei prodotti vegetali e, più in generale, la riserva di alcune denominazioni a “parti commestibili di animali”. L’impianto resta distinto dal tema della carne coltivata, che ha percorsi autorizzativi e normativi propri. Proprio Biolab critica questa confusione, rimarcando che industria vegetale e nuove proteine sono filiere differenti e non sovrapponibili nei modelli produttivi.
I consumatori sono davvero confusi dai “veggie burger”? Le organizzazioni dei consumatori europee, come BEUC, citano indagini secondo cui la maggioranza non si sente tratta in inganno se l’etichetta indica chiaramente “vegetale” o “vegano”, anzi apprezza termini che spiegano come cucinare e usare il prodotto. È una fotografia statistica che non chiude il confronto politico, ma che aiuta a calibrare le scelte: se il nodo è la trasparenza, la via maestra resta l’informazione chiara e verificabile in etichetta, più che la cancellazione di parole d’uso comune.
Oltre la polemica: un lessico da riscrivere con intelligenza
La discussione non è solo nominale: riguarda il modo in cui raccontiamo il cibo che cambia, senza smarrire chiarezza e senza frenare chi innova con responsabilità. Dalla politica arrivano messaggi di tutela del consumatore; dalle imprese l’appello a non guastare una relazione con il pubblico costruita anche grazie a parole semplici, immediatamente comprensibili. Chi produce — come Biolab — chiede tempi, certezza del diritto e spazio per un linguaggio che informi davvero. Come redazione, abbiamo verificato i passaggi istituzionali e ascoltato la filiera: se l’obiettivo è orientare scelte consapevoli, occorre pretendere etichette limpide, non spogliare i prodotti dei nomi che ne spiegano l’uso. In Europa, l’equilibrio tra prodotto, diritto e parole si costruisce con dati, ascolto e buon senso: è da lì che passa la fiducia di chi acquista.
