Donald Trump atterrerà domani, lunedì 13 ottobre 2025, in Israele per una visita rapidissima, prima di spostarsi a Sharm el-Sheikh per la firma dell’intesa su Gaza. Sullo sfondo, l’attesa per l’avvio della liberazione degli ostaggi ancora vivi e una tregua che cerca di trasformarsi in pace duratura.
Un itinerario lampo tra Gerusalemme e il Mar Rosso
Secondo la programmazione ricostruita dai media israeliani, il presidente statunitense arriverà al Ben Gurion poco dopo le 9 del mattino, riceverà un saluto formale e si dirigerà verso la Knesset per un intervento previsto intorno alle 11, con un incontro privato con Benjamin Netanyahu prima del discorso e un momento dedicato alle famiglie degli ostaggi. L’intera permanenza nello Stato ebraico durerà meno di quattro ore, a ridosso dell’inizio di Simchat Torah, per poi proseguire in Egitto nel pomeriggio. Una coreografia serrata, pensata per imprimere ritmo politico a una tregua fragile.
La tappa egiziana sarà il baricentro della giornata: a Sharm el-Sheikh il capo della Casa Bianca co-presiederà con Abdel Fattah al‑Sisi un vertice chiamato a suggellare la prima fase dell’accordo su Gaza, negoziato con la mediazione di Egitto, Qatar e Turchia. Le cancellerie parlano di oltre venti leader attesi e di una cerimonia che vuole dare cornice istituzionale al cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. L’elemento simbolico è forte: un calendario stretto, un linguaggio di pace da tradurre subito in atti.
La cornice del vertice di Sharm: chi c’è e chi manca
Dal Palazzo Presidenziale egiziano è arrivata la conferma che il summit di lunedì riunirà capi di governo e ministri europei e arabi, con la partecipazione del segretario generale Antonio Guterres. Tra gli invitati figurano, tra gli altri, Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Grecia e UE, oltre a Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Giordania, Pakistan e Indonesia. Inviti estesi anche oltre l’area, con Paesi come Giappone, Canada e realtà caucasiche segnalati da ricostruzioni giornalistiche. Un perimetro ampio per accreditare una pace sostenuta da molti.
Resta invece l’incognita della rappresentanza diretta dei due protagonisti del conflitto: fonti diplomatiche e testate internazionali convergono sul fatto che Hamas non parteciperà e che, per Israele, non vi sia al momento conferma della presenza del primo ministro. L’architettura procedurale adottata punta comunque a fondarsi su “lettere di principio” e impegni formalizzati separatamente, mentre la regia pubblica resterà in mano ai garanti. Una soluzione pragmatica per evitare vuoti di scena che intralcino il percorso.
Ostaggi: la variabile che tiene il fiato sospeso
L’orologio scorre verso la scadenza dei 72 ore previste per la prima tranche: l’aspettativa, ribadita da esponenti di Hamas e da funzionari israeliani, è che i 48 ostaggi ancora trattenuti, di cui circa 20 ritenuti vivi, inizino a essere liberati tra domenica sera e lunedì mattina. La gestione, coordinata dal CICR, potrebbe prevedere o un trasferimento unico dopo il riunirsi dei rapiti in un punto della Striscia, o più movimenti simultanei da aree diverse. Il dettaglio operativo, più che la volontà politica, è oggi l’ago della bilancia.
Per le famiglie, l’ultima comunicazione del coordinatore israeliano per gli ostaggi Gal Hirsch ha chiarito che il “conto alla rovescia” scatterà una volta completato il riposizionamento militare lungo le linee concordate, e che i preparativi logistici per l’accoglienza sono conclusi. Nelle stesse ore, il presidente statunitense ha sottolineato che alcuni ostaggi si troverebbero “in luoghi complessi”, insistendo sulla tenuta della tregua se entrambe le parti continueranno a rispettare gli impegni sottoscritti. Speranza e cautela camminano affiancate.
Nei penitenziari e sulle strade: i segni concreti dell’attesa
Il Servizio carcerario israeliano ha iniziato a raggruppare i detenuti palestinesi che saranno liberati nell’ambito dell’intesa, spostandoli nelle strutture di Ketziot nel Negev e Ofer in Cisgiordania. In base all’accordo, il rilascio di quasi 2.000 prigionieri, inclusi 250 condannati all’ergastolo, procederà in parallelo con la consegna degli ostaggi. La Croce Rossa garantirà verifiche d’identità e scorte, con passaggi attraverso Rafah per i trasferimenti verso Gaza. La macchina amministrativa anticipa la scena politica.
In Egitto, l’apparato di sicurezza e protocollo lavora senza sosta per l’arrivo delle delegazioni. Il clima resta teso: nel tratto di strada che porta a Sharm el‑Sheikh si è consumato un grave incidente in cui hanno perso la vita tre diplomatici del Qatar, impegnati nei preparativi del summit. Nel frattempo, ONU e agenzie umanitarie pianificano l’espansione degli aiuti per un Gaza stremato, mentre migliaia di sfollati tentano un rientro tra macerie e servizi essenziali ancora precari. La normalità resta un obiettivo, non un traguardo.
I venti nomi che il Paese attende
Tra i rapiti ritenuti vivi, la storia del sottufficiale Matan Angrest, 22 anni, emblematica di una gioventù travolta dalla guerra: catturato ai margini della Striscia dopo aver tentato di fermare un’incursione vicino a Nahal Oz, mentre la sua squadra veniva decimata. In un video familiare si vede il prelievo dal carro armato e l’aggressione. Un volto tra tanti, ma capace di riassumere una ferita collettiva che non si rimargina senza verità e ritorni a casa.
Ci sono i gemelli Gali e Ziv Berman, 28 anni, rapiti nel quartiere giovanile di Kfar Aza devastato dalle fiamme; Elkana Bohbot, 36 anni, produttore del Nova Festival, ammanettato e ferito in un filmato, con una vita familiare sospesa e persino una cittadinanza onoraria concessa in Colombia; e Rom Braslavski, 21 anni, addetto alla sicurezza del festival, colpito alle mani e ripreso in condizioni di estrema debolezza in una clip diffusa mesi fa. Nomi che oggi pesano come promesse da mantenere.
Tra i militari, il soldato Nimrod Cohen, 21 anni, strappato a un carro in avaria vicino a Nahal Oz, mentre i compagni Omer Neutra, Oz Daniel e Shaked Dahan venivano uccisi. Dalla casa di Rehovot, i genitori hanno riempito piazze e cartelli. E poi i fratelli israelo‑argentini David e Ariel Cunio, prelevati a Nir Oz da una stanza sicura incendiata per costringerli a uscire: la loro famiglia è diventata simbolo di una cattura corale, con liberazioni scaglionate nei mesi successivi. Il dolore ha il suono di più lingue, ma un’unica richiesta.
Dal Nova arriva anche la vicenda di Evyatar David, 24 anni, e dell’amico d’infanzia Guy Gilboa Dalal, ripresi in tunnel sotterranei, debilitati e legati, mostrati mentre implorano la liberazione; di Maxim Herkin, 37 anni, russo‑israeliano apparso bendato; di Eitan Horn, 39 anni, educatore rapito a Nir Oz insieme al fratello, poi rilasciato; di Segev Kalfon, 27 anni, prelevato lungo la Route 232; di Bar Kuperstein, 23 anni, medico militare fuori servizio quel giorno, ritratto legato dopo aver soccorso altri. Ogni dettaglio è una prova di resistenza che il tempo non deve spezzare.
Completano il quadro Omri Miran, 48 anni, massaggiatore con passaporto ungherese rapito a Nahal Oz, apparso in dichiarazioni estorte in cui evocava bombardamenti incessanti; e altri ostaggi indicati dalle famiglie e dai media locali nelle ricognizioni più recenti. La lista, per quanto dolorosa e soggetta a conferme, resta il centro emotivo e morale di questa tregua: senza di loro, nessun accordo potrà dirsi compiuto.
Una tregua che chiede sostanza
Il disegno operativo prevede il ritiro a tappe dell’IDF da aree urbane chiave, il varo immediato di aiuti umanitari e il rilascio sincronizzato di ostaggi e prigionieri. ONU e organizzazioni sul campo sono pronte ad ampliare la risposta, mentre migliaia di sfollati rientrano tra edifici sbriciolati. I bollettini delle ultime ore ricordano che i numeri delle vittime a Gaza superano quota 67mila secondo le autorità locali e che le sfide su sicurezza, disarmo e governance restano irrisolte. Il cessate il fuoco è un inizio, non un epilogo.
La regia politica ha un marchio chiaro: oltre agli emissari statunitensi Steve Witkoff e Jared Kushner, gli sforzi congiunti di Egitto, Qatar e Turchia hanno cucito il testo che ora cerca applicazione. Il summit di Sharm vuole blindare questo passaggio, mentre nell’opinione pubblica israeliana si registrano piazze di ringraziamento e attese trepidanti nelle aree dove atterreranno gli ostaggi. Ogni gesto diplomatico viene misurato sul metro degli arrivi in corsia e dei ricongiungimenti.
Domande chiave in pochi minuti
Quando è atteso l’avvio delle liberazioni? Le finestre indicate da fonti israeliane e da esponenti di Hamas convergono tra la serata di domenica 12 e la mattina di lunedì 13 ottobre 2025, dentro il limite delle 72 ore fissato per la prima fase. La dinamica dipenderà dall’assetto logistico concordato con il CICR e dai riposizionamenti militari già in corso sul terreno lungo le linee pattuite.
Chi parteciperà alla firma in Egitto? La regia è affidata al presidente al‑Sisi e a Trump, con oltre venti leader attesi tra Europa e mondo arabo. Le ricostruzioni giornalistiche citano la presenza di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Grecia, UE, e Paesi come Arabia Saudita, Qatar, EAU, Giordania, Pakistan, Indonesia, con ulteriori inviti estesi.
Israele e Hamas saranno alla cerimonia? Hamas non prenderà parte, mentre per Israele non c’è conferma del coinvolgimento al tavolo cerimoniale: l’architettura dell’intesa si fonda su impegni formali depositati e garantiti dai mediatori, così da evitare stalli simbolici e consentire comunque la messa in opera delle misure già calendarizzate.
Qual è l’ampiezza dello scambio di prigionieri? La prima fase prevede la liberazione di quasi 2.000 detenuti palestinesi, inclusi 250 ergastolani, in parallelo con il rilascio di 48 ostaggi israeliani, dei quali circa 20 ritenuti vivi. I trasferimenti verso Ofer e Ketziot sono già in corso per facilitare le procedure del giorno X.
Uno sguardo che non si accontenta
Da osservatori sul campo informati e rigorosi, sentiamo l’urgenza di guardare oltre la firma e le foto di rito: il punto non è solo chi siederà in sala, ma cosa accadrà nelle ore successive nei valichi, negli ospedali, nelle case spezzate di Gaza e nelle famiglie che aspettano a Tel Aviv, Gerusalemme e nei kibbutz colpiti. Il nostro compito è misurare la distanza tra le parole e la vita reale, raccontando ogni passo che avvicina o allontana la fine di questa guerra.
Se domani, lunedì 13 ottobre 2025, l’orologio della storia troverà un allineamento raro tra diplomazia e umanità, lo capiremo dalle sirene delle ambulanze che si fanno più rade, dai telefoni che squillano per dire “sono tornato”, dai camion di aiuti che finalmente passano. Solo allora potremo scrivere che una tregua è diventata davvero un passaggio di pace.
