Parole che interrogano la coscienza pubblica e scuotono la memoria collettiva. Al centro, il valore dei viaggi nei luoghi della Shoah, il rapporto tra storia e presente, l’urgenza di nominare l’antisemitismo di oggi senza sconti. Un confronto acceso che, da Roma, attraversa scuole, atenei, piazze e istituzioni, mentre il Medio Oriente tenta di voltare pagina.
Le parole che accendono il dibattito
Nel corso della giornata di studio organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane al Cnel, intitolata “La storia stravolta e il futuro da costruire”, la ministra Eugenia Roccella ha affidato a una riflessione il senso – e i limiti – dei viaggi scolastici ad Auschwitz. Li ha descritti, in sostanza, come percorsi che negli anni avrebbero finito per collocare l’antisemitismo in un passato “chiuso” e in un’area storica precisa, il fascismo, rinunciando a chiamare per nome l’odio antiebraico che attraversa il presente. L’evento, annunciato da Moked, organo d’informazione dell’Ucei, ha riunito storici, accademici e istituzioni nella sede di Villa Lubin.
Nel suo intervento la ministra ha aggiunto che, dopo il 7 ottobre 2023, non si sarebbe registrato quel moto unanime di solidarietà che molti attendevano, leggendo anche qui il segnale di un antisemitismo carsico. Ha poi insistito sul ruolo delle università, chiamate – a suo avviso – a un lavoro più rigoroso di riflessione, criticando decisioni come la mozione del Senato accademico di Bologna che, a settembre 2025, ha interrotto le collaborazioni formali con atenei e istituzioni israeliane: scelta votata dopo un ampio dibattito e documentata tanto dallo stesso Ateneo quanto da agenzie di stampa nazionali.
Università, aule e la fatica del pensare
Nell’analisi proposta, le aule accademiche dovrebbero tornare laboratori esigenti di pensiero critico, capaci di parlare ai più giovani anche quando le parole fanno male. La ministra ha evocato slogan e manifestazioni degli ultimi mesi, chiedendo di distinguere tra protesta e apologia, tra giudizio politico e negazione della sofferenza altrui. È un terreno delicatissimo, perché la scuola e l’università sono insieme luoghi di libertà e responsabilità: spazi dove la storia si studia, la si discute senza sconti, la si rende comprensibile. La mozione dell’Alma Mater – piaccia o meno – indica comunque che gli atenei non restano alla finestra, ma scelgono, deliberano, si assumono conseguenze.
Dentro questo quadro si innesta la domanda più scomoda: come si contrasta l’antisemitismo quando si presenta sotto forme nuove, meno riconoscibili del passato? La risposta non può essere semplificata: riguarda linguaggi, curricula, formazione degli insegnanti, qualità del dibattito pubblico. Ed esige strumenti: percorsi didattici autorevoli, come quelli messi in campo da Cei e Ucei per colmare vuoti e fraintendimenti sull’ebraismo nei testi scolastici, e investimenti culturali che tengano insieme rigore storico e capacità di parlare all’oggi.
Memoria che si impara in cammino
La memoria non è pellegrinaggio di rito: è esperienza, sguardo, linguaggio. Lo ricorda da anni Liliana Segre, che ha sempre respinto l’idea dei Viaggi della Memoria come “gite”, indicando in quei luoghi il silenzio, il rispetto e lo studio come unici compagni possibili. Nelle settimane dell’ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, le sue parole hanno ritrovato eco in incontri pubblici e testimonianze, insieme all’appello del Presidente Sergio Mattarella a non isolare la Shoah in una parentesi “irripetibile” e a riconoscere la complicità del fascismo nelle leggi razziste.
Da Roma Capitale agli istituti di molte città, il 2025 ha visto riprendere i Viaggi della Memoria con centinaia di studenti impegnati tra Cracovia e i campi di Auschwitz-Birkenau. Quei passaggi, preparati in classe e accompagnati da storici e testimoni, hanno un senso solo se collegano ciò che si studia ai conflitti dell’oggi, senza equazioni indebite e senza rimozioni: è lì che si forma la grammatica civile, è lì che la parola “mai più” smette di essere formula e torna responsabilità.
Le reazioni incrociate
Le frasi della ministra hanno provocato obiezioni e contro-osservazioni immediate. Tra le voci più ascoltate, quella di Segre, che ha espresso sconcerto per l’idea che i viaggi ad Auschwitz possano essere stati valorizzati per indirizzare l’antifascismo, ribadendo che la formazione delle giovani generazioni inizia dalla conoscenza onesta della storia. In parallelo, esponenti dell’opposizione hanno definito quelle parole “gravi” e “strumentali”, rivendicando i Viaggi come strumenti educativi decisivi e ricordando che l’antisemitismo non è un fantasma museale ma una minaccia concreta, visibile nelle nostre città e online. (Contestualmente, i numeri dell’Osservatorio antisemitismo CDEC mostrano un aumento consistente degli episodi nel 2023 e un’ulteriore impennata nel 2024.)
Roccella ha replicato respingendo ogni caricatura delle sue parole, rivendicando l’importanza dei viaggi della memoria e spostando l’attenzione sull’oggi: condannare l’antisemitismo di ieri non basta se non si vede quello che si esprime apertamente nelle piazze e negli atenei occidentali. Nel richiamare l’attualità, la ministra ha citato anche il recente cessate il fuoco in Gaza annunciato sulla scena internazionale, che ha aperto spiragli per la liberazione degli ostaggi e per un flusso di aiuti umanitari; un passaggio riconosciuto e seguito da media internazionali, mentre a livello politico si lavora sul quadro post-bellico e sul futuro governo della Striscia.
Fatti, numeri, parole
Guardare in faccia l’antisemitismo di oggi significa partire dai dati. La relazione 2023 del CDEC documenta 454 episodi (contro i 241 del 2022), con un picco nei mesi successivi al 7 ottobre; la relazione 2024, pubblicata nel 2025, segnala 877 episodi selezionati come tali dall’Osservatorio. La crescita riguarda tanto la rete quanto i fatti materiali: minacce, vandalismi, intimidazioni. Non sono numeri astratti; sono storie che attraversano scuole, università, spazi pubblici. E interrogano direttamente educatori, amministratori, giornali, piattaforme.
Nel frattempo, sul fronte internazionale, la Corte internazionale di giustizia ha emesso misure cautelari reiterate sul conflitto in Gaza, ordinando tra l’altro l’accesso degli aiuti e la prevenzione di atti vietati dalla Convenzione sul genocidio. È un punto essenziale del diritto: le misure della Corte non equivalgono a una sentenza sul merito del crimine di genocidio, che richiede tempi e accertamenti più lunghi. La precisione delle parole – in politica, nei media, nelle aule – resta condizione di ogni confronto serio.
Domande per capire, senza sconti
I viaggi ad Auschwitz servono ancora, a ottant’anni dalla liberazione? Sì, quando non diventano rito. Servono se preparati nelle classi, se accompagnati da studiosi e testimoni, se intrecciati con letture, documenti, domande scomode. Servono quando restituiscono la complessità storica – inclusa la complicità del fascismo nelle leggi razziste, ricordata dalle più alte cariche dello Stato – e quando ci obbligano a riconoscere l’antisemitismo che si manifesta oggi, non come un reperto da teca ma come una pratica d’odio che cambia linguaggio e luoghi.
Le università possono essere “luoghi di non-riflessione”, come è stato detto? Possono esserlo se rinunciano al confronto documentato. Ma possono essere anche il contrario: spazi di metodo e di verifica, dove si tengono insieme libertà accademica e responsabilità delle scelte, come mostra – nel bene e nel dissenso che suscita – la mozione dell’Università di Bologna. La qualità del dibattito non si misura dal volume della protesta, bensì dalla cura delle fonti, dalla trasparenza delle decisioni, dalla disponibilità a mettere alla prova le proprie tesi con i fatti.
Come si concilia il racconto della Shoah con la cronaca di Gaza senza annullare differenze e ferite? Con due esercizi insieme: rigore e empatia. Rigore significa nominare crimini, responsabilità e diritto internazionale con il loro nome – anche ricordando le misure ordinate dalla Corte internazionale di giustizia, che non sono una sentenza sul genocidio –; empatia significa vedere il dolore di tutte le vittime senza usare il loro dolore contro altre vittime. Solo così “mai più” resta promessa credibile, in Europa e in Medio Oriente.
Una linea editoriale che chiama ciascuno per nome
In queste ore calde, tra parole che feriscono e parole che riparano, sentiamo il dovere di tenere insieme memoria e responsabilità. È l’impegno quotidiano: raccontare i fatti, distinguere opinioni e dati, citare le fonti – dalle relazioni del CDEC ai richiami del Quirinale, fino alle decisioni della CIJ – e restituire la complessità senza indulgere alle caricature. Di Auschwitz si torna sconvolti perché ci guarda dentro: non per irrigidire le identità, ma per imparare a chiamare per nome l’odio di ieri e di oggi, ovunque si annidi.
