Un appello attraversa le aule universitarie italiane e arriva sulla scrivania del ministro degli Esteri Antonio Tajani: trentadue docenti chiedono di consentire l’ingresso a Fatena Mohanna e Alhassan Selmi, premiati con le Colombe d’oro per la pace, attese a Roma sabato 18 ottobre insieme alla collega Aya Ashour.
Un appello che chiede ascolto
Arriva da 21 atenei la richiesta formale al ministro degli Esteri: permettere a Fatena Mohanna e Alhassan Selmi di lasciare la Striscia di Gaza per raggiungere Roma e ritirare un riconoscimento che celebra il diritto a raccontare i fatti. I promotori sottolineano come, dopo l’impegno già profuso dall’Italia sul diritto alla salute e sul diritto allo studio, sia coerente riconoscere in modo concreto anche il diritto all’informazione, che la nostra Costituzione e i trattati europei tutelano senza ambiguità. A dare voce all’iniziativa è una lettera resa pubblica in queste ore, con un linguaggio chiaro e rispettoso delle istituzioni, ma fermo nella sostanza: consentire la presenza dei due reporter alla cerimonia del 18 ottobre non sarebbe un favore, bensì l’esercizio di una tutela dovuta. Lo riporta l’agenzia internazionale Pressenza, che pubblica integralmente l’appello e l’elenco dei firmatari.
Tra i concetti cardine richiamati dagli accademici figurano l’articolo 21 della Costituzione e l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, insieme alle garanzie offerte dal diritto internazionale umanitario ai giornalisti impegnati in aree di conflitto. In questa cornice, l’arrivo a Roma dei due vincitori è presentato come un atto dovuto alla libertà di informazione e al pluralismo dei media, non come un’eccezione concessa a discrezione. Il punto, spiegano i docenti, non è lo status personale dei reporter, ma la funzione pubblica che essi incarnano in un contesto dove reperire notizie verificate è diventato quasi impossibile. Nella lettera è ricordata anche la sede della cerimonia, in Campidoglio, dettaglio che ribadisce il valore istituzionale dell’appuntamento.
Un riconoscimento che parla al presente
La 41ª edizione del Premio internazionale Archivio Disarmo – Colombe d’oro per la pace ha scelto di premiare tre giovani giornalisti palestinesi: Aya Ashour, Fatena Mohanna e Alhassan Selmi. La giuria, che riunisce nomi di primo piano del giornalismo e della cultura, ha deliberato all’unanimità. La cerimonia è fissata per sabato 18 ottobre a Roma. Aya si trova già in Italia grazie a un percorso avviato con il sostegno istituzionale, mentre Fatena e Alhassan attendono ancora il via libera per partire dalla Striscia di Gaza. La presentazione ufficiale del Premio è stata ospitata nella sede della Federazione nazionale della Stampa italiana, che ha rimarcato come questa assegnazione sia un tributo a chi, spesso a rischio personale, continua a informare sull’evolversi della guerra.
L’istituto promotore, Archivio Disarmo, ha annunciato l’esito del concorso già a luglio, sottolineando l’unità di intenti della giuria e la centralità del racconto dal campo in un conflitto che ha ridisegnato l’agenda internazionale. La stessa organizzazione ha poi rilanciato, a fine settembre, un ulteriore coinvolgimento della comunità professionale: cento giornalisti italiani hanno sottoscritto un appello a sostegno della possibilità di far giungere a Roma i due colleghi ancora bloccati. Nel dedalo delle procedure e dei permessi, quel che conta, ribadisce l’istituto, è non spegnere la voce di chi documenta e verifica. Lo hanno ricordato sia il comunicato dell’ente sia diverse testate che hanno dato risalto alla notizia.
Il nodo dei visti e la diplomazia italiana
La situazione dei due reporter mette a nudo la complessità di una macchina diplomatica che, in territori sottoposti a bombardamenti e restrizioni agli spostamenti, richiede passaggi straordinari. Le comunicazioni diffuse dall’istituto promotore spiegano che il consolato competente non può rilasciare visti nelle attuali condizioni, motivo per cui si chiede un intervento politico che consenta l’uscita temporanea per motivi eccezionali. L’esperienza recente di Aya Ashour, arrivata in Italia per proseguire gli studi, dimostra che un corridoio è possibile quando le istituzioni coordinano i passaggi con determinazione e prudenza. La differenza, ora, la può fare una decisione rapida e motivata.
In questo quadro si inserisce anche la posizione del presidente di Archivio Disarmo, Fabrizio Battistelli, che ha letto in questa richiesta una continuità con gli sforzi già compiuti dall’Italia in materia di tutela della salute e del diritto allo studio. Il passaggio all’informazione, sostiene, è un’estensione coerente e necessaria, perché nessun contesto bellico può legittimamente sopprimere il lavoro di chi racconta i fatti. Sono parole che non alzano i toni, ma puntano a una presa di responsabilità chiara e tempestiva, senza forzature e nel pieno rispetto dei canali istituzionali.
Diritti fondamentali in tempo di guerra
La lettera degli accademici richiama norme precise: l’articolo 21 della Costituzione italiana, l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 79 del Secondo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, che riconoscono speciali tutele a chi opera nell’informazione in scenari di conflitto. È un impianto giuridico che non ammette scorciatoie e che, proprio per questo, chiede coerenza nelle decisioni. Rendere possibile la presenza dei due premiati alla cerimonia significa tradurre in pratica principi che l’Italia ha sottoscritto.
Il contesto in cui maturano queste richieste è segnato da un tributo altissimo pagato dai media. Nelle settimane di presentazione del Premio, più voci hanno ricordato la lunga scia di giornalisti uccisi a partire dall’autunno 2023. Tra le ricostruzioni circolate nel dibattito pubblico, rilanciate anche da autorevoli testate internazionali, campeggiano numeri che raccontano l’urgenza di proteggere chi documenta sul campo e la necessità di garantire corridoi sicuri per l’informazione. Non è una questione di simpatia o di parte: è il tessuto stesso della democrazia a chiederlo.
Voci e firme della comunità accademica
Nell’elenco dei sottoscrittori compaiono giuristi di riconosciuta autorevolezza. Tra questi Enzo Cannizzaro e Sergio Marchisio dell’Università La Sapienza di Roma, Luigi Ferrajoli e Giuseppe Palmisano dell’Università Roma Tre, Andrea Giardina della Scuola Normale Superiore di Pisa, Alessandro Torre dell’Università di Bari, Enzo Cheli dell’Università di Siena. Le firme arrivano anche da Torino, Pavia, Trento, Udine, Firenze, Padova e altre sedi, a conferma di una sensibilità diffusa. Non un gesto simbolico, ma un invito a far prevalere il diritto dove la cronaca registra ostacoli concreti.
La varietà degli atenei coinvolti suggerisce che la questione non riguarda solo il perimetro del giornalismo, ma tocca in profondità lo stato di salute dello spazio pubblico. Le istituzioni universitarie, che per loro natura alimentano il dibattito critico, hanno scelto di mettere il proprio nome accanto a una richiesta misurata e circostanziata, fondata su riferimenti normativi e su fatti ampiamente documentati dalla stampa italiana. È un segnale che chiama ciascuno alla responsabilità, a partire dalle scelte di politica estera.
Domande che molti si pongono
Chi sono i tre premiati e qual è la loro situazione attuale? Si tratta di Aya Ashour, Fatena Mohanna e Alhassan Selmi, tre giovani professionisti dell’informazione originari di Gaza. La giuria del Premio li ha scelti per il loro lavoro in condizioni estreme. Aya è già in Italia per proseguire il percorso di studi; Fatena e Alhassan sono in attesa delle autorizzazioni necessarie per lasciare la Striscia e partecipare alla cerimonia del 18 ottobre a Roma. La loro vicenda è stata presentata ufficialmente alla stampa italiana in settembre.
Che cosa chiedono i 32 professori di diritto al governo italiano? Chiedono un intervento del ministro Antonio Tajani per consentire l’arrivo in Italia di Fatena Mohanna e Alhassan Selmi, nel solco delle misure già adottate a tutela del diritto alla salute e del diritto allo studio. L’appello invoca il riconoscimento effettivo del diritto all’informazione, richiamando Costituzione, Carta europea e diritto internazionale umanitario, e indica la data e la sede della premiazione come occasione concreta per dare seguito a questi principi.
Perché questa vicenda ha un valore che va oltre la consegna di un premio? Perché riguarda il ruolo pubblico dell’informazione in una guerra che ha visto cadere numerosi operatori dei media e ha reso difficilissimo verificare i fatti. Facilitare la presenza dei due reporter a Roma significherebbe ribadire che l’Italia sostiene chi racconta con rigore ciò che accade, nel rispetto delle norme nazionali e internazionali. È un gesto che parla alla coscienza civile, prima ancora che al cerimoniale di un riconoscimento.
Una scelta che ci riguarda, qui e ora
Chi lavora ogni giorno tra carte, testimonianze e notizie sa quanto pesi la responsabilità della verifica, soprattutto quando la realtà sfida la nostra capacità di comprenderla. Questa storia non domanda applausi, ma coerenza. La richiesta di far arrivare Fatena Mohanna e Alhassan Selmi a Roma per le Colombe d’oro per la pace ci invita a guardare all’informazione come a un bene comune: un patrimonio da proteggere, perché senza quella luce condivisa nessuna comunità può dirsi veramente libera e consapevole.