Una tregua appena entrata in vigore apre uno spiraglio: lunedì 13 ottobre 2025, a Sharm el‑Sheikh, è attesa la cerimonia di firma dell’intesa tra Israele e Hamas e un summit con Donald Trump e leader europei e arabi per blindarne il sostegno. L’Italia si prepara a esserci, con un ruolo concreto nella stabilizzazione e nella ricostruzione.
Un lunedì decisivo sul Mar Rosso
Nel pomeriggio di lunedì 13 ottobre 2025 la località egiziana di Sharm el‑Sheikh ospiterà la cerimonia che suggellerà la prima fase dell’accordo tra Israele e Hamas. Fonti qualificate, riportate in Italia dall’Adnkronos e rilanciate da quotidiani nazionali, indicano che nello stesso luogo si terrà un vertice voluto da Trump con esponenti europei e arabi per consolidare la cornice politica del piano: governance, sicurezza e ricostruzione della Striscia di Gaza. L’Egitto ha fatto da ponte, con Abdel Fattah al‑Sisi attivo negli inviti e nella regia diplomatica.
Tra i Paesi coinvolti nelle consultazioni per il summit figurano Italia, Francia, Germania e Regno Unito, insieme a partner regionali come Qatar, Emirati, Arabia Saudita, Giordania e Turchia. La scelta di Sharm el‑Sheikh non è casuale: è il luogo in cui, nei giorni scorsi, si sono svolti i negoziati indiretti che hanno portato alla definizione della prima tappa dell’intesa. Da quel tavolo è nata la promessa di una tregua verificabile e di un percorso graduale sulla gestione civile della Striscia, con il sigillo di Egitto, Qatar e Turchia come garanti operativi.
Le mosse di Washington e la faticosa architettura della tregua
Il cessate il fuoco è scattato venerdì 10 ottobre 2025, dopo l’approvazione dell’accordo da parte del governo israeliano: una pausa che include il ritiro delle truppe da alcune aree, l’avvio di un massiccio flusso di aiuti e uno scambio di ostaggi e detenuti nelle prime 72 ore. Le ricostruzioni di Reuters, Wall Street Journal e Guardian hanno messo in fila gli elementi chiave e il ruolo diretto di Donald Trump nel cucire la prima fase del piano, sostenuta da Egitto, Qatar e Turchia, con meccanismi di scambio e verifiche serrate sul terreno.
Nella giornata di lunedì, secondo media egiziani, Trump è atteso a Gerusalemme per un discorso alla Knesset e un incontro con i familiari degli ostaggi, prima del trasferimento in Egitto per la cerimonia e il summit. La dimensione simbolica dell’intervento a Israele si intreccia con la necessità di assicurare che le parti rispettino i passaggi concordati; la tappa egiziana, invece, punta a elevare il piano da tregua a cornice politica, con impegni condivisi sulla fase di transizione.
Cosa può cambiare a Gaza nelle prossime ore
Dalla viva voce di esponenti di Hamas, citati da testate regionali, arrivano segnali su tempi e priorità: l’ingresso di carburante e generi essenziali già da sabato 11 ottobre, e la riapertura del valico di Rafah a metà della prossima settimana in entrambe le direzioni. È un passaggio determinante per alimentare centrali, ospedali e catene del freddo. In parallelo, ONU e agenzie umanitarie preparano un incremento senza precedenti dei convogli, compatibilmente con il progressivo arretramento delle forze e le finestre di sicurezza.
Nei piani discussi dai mediatori, la ripresa della distribuzione elettrica e la messa in sicurezza delle infrastrutture critiche sono considerate condizioni minime per evitare nuove frizioni e per far ripartire l’assistenza sanitaria di base. La cornice resta fragile: gli osservatori internazionali ricordano che, senza un passaggio ordinato su accessi terrestri e verifiche doganali, il rischio di colli di bottiglia persiste. Le stime del Programma Alimentare Mondiale e di altre agenzie indicano bisogni “immensi”, con lo spettro della malnutrizione infantile che impone rapidità e coordinamento.
Il dispositivo di monitoraggio: 200 militari Usa e un centro di coordinamento
Stanno arrivando in Israele i primi militari statunitensi che comporranno un nucleo di circa 200 unità dedicato al centro di coordinamento civile‑militare: un presidio che dovrà monitorare l’attuazione della tregua, sostenere la logistica degli aiuti e favorire il raccordo con ONG e settore privato. Non sono previste truppe americane a Gaza. L’iniziativa, illustrata da funzionari a emittenti statunitensi e ripresa dalla stampa internazionale, risponde alla necessità di una cabina unica per ridurre sovrapposizioni e incidenti operativi.
La struttura, secondo le stesse fonti, lavorerà a stretto contatto con le autorità israeliane e con i partner regionali coinvolti nella mediazione, a partire da Egitto, Qatar e Turchia. Il primo compito sarà definire il “dove” e il “come”: sede, protocolli di scambio dati, regole di de‑conflitto e una catena decisionale chiara quando si presentano violazioni o incidenti sul terreno. È qui che si misurerà l’efficacia del meccanismo: monitorare, intervenire, prevenire, evitando che l’ansia di “fare del bene” inneschi caos operativo.
L’Italia si prepara: responsabilità e prudenza
L’Italia rivendica un ruolo attivo e, insieme, prudente. Alla vigilia del summit, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito sostegno agli sforzi statunitensi e la disponibilità a “fare la nostra parte”, una linea rimarcata nelle ultime settimane anche nei contatti con Washington. Sul fronte operativo, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha sottolineato in TV la volontà di contribuire alla ricostruzione e, se necessario, a una missione di sicurezza a guida internazionale, nella cornice del piano statunitense.
Il dibattito interno è concreto ma coeso. Tajani ha parlato di “missioni di pace” e di una maggioranza pronta a sostenerle, mentre dalla Difesa è arrivato il segnale della ripresa delle attività italiane nell’ambito di EUBAM Rafah, missione europea cui partecipa personale dell’Arma dei Carabinieri, in vista della riapertura del valico e del rafforzamento dei controlli. Si tratta di passi calibrati per trasformare una tregua fragile in un percorso sostenibile, evitando forzature e zone d’ombra legale.
Tra governance e sicurezza: il cantiere più delicato
Il cuore del confronto che si apre con la firma non è solo “fermare le armi”, ma stabilire chi e come gestirà la Striscia di Gaza nel dopo‑conflitto. Il piano su cui si muove la diplomazia prevede un passaggio graduale verso un’amministrazione civile palestinese con forte accompagnamento internazionale, mentre le componenti armate dovranno disinnescarsi sotto garanzie multilaterali. Nelle scorse ore, rappresentanti di Hamas hanno mostrato aperture a un ruolo ridimensionato nella gestione quotidiana, segnale da leggere come prova di pragmatismo sotto pressione.
Il tracciato resta stretto: dalla riforma dei servizi essenziali alla messa in sicurezza dei confini, fino alle condizioni per gli scambi di prigionieri più sensibili. Le capitali europee, insieme ai partner arabi, intendono sostenere la fase di transizione con strumenti finanziari, tecnici e di sicurezza. Ma ogni passo dipenderà dal rispetto del calendario iniziale, dall’efficienza del centro di coordinamento e dalla tenuta dei meccanismi di verifica concordati al tavolo di Sharm el‑Sheikh. La tregua è un ponte: attraversarlo richiederà costanza, disciplina e trasparenza.
Orientarsi nell’immediato: domande rapide
Quando avverrà la firma e chi sarà presente? Lunedì 13 ottobre 2025 a Sharm el‑Sheikh; attesi Donald Trump, autorità egiziane e una rappresentanza di leader europei e arabi, con l’Italia tra gli invitati.
La tregua è già in vigore? Sì, è scattata venerdì 10 ottobre 2025, con ritiro parziale delle truppe, flusso di aiuti e scambi di ostaggi e detenuti nelle prime 72 ore.
Arriveranno aiuti subito? Secondo fonti di Hamas riprese dalla stampa, carburante e forniture essenziali iniziano a entrare da sabato 11 ottobre; la riapertura di Rafah è prevista a metà della prossima settimana.
Ci saranno soldati stranieri a Gaza? No: gli Stati Uniti stanno inviando circa 200 militari in Israele per un centro di coordinamento civile‑militare che monitori l’attuazione dell’accordo e l’arrivo degli aiuti.
L’Italia che cosa farà? Roma è pronta a contribuire alla ricostruzione e a missioni di sicurezza in ambito internazionale, con l’ipotesi di riattivare attività europee al valico di Rafah attraverso EUBAM, dove operano anche i Carabinieri.
Custodire una speranza concreta
Questo passaggio non chiede entusiasmo a buon mercato, ma serietà. Le tregue sopravvivono quando trovano mani che le sorreggono e occhi che ne controllano i dettagli. L’impegno che abbiamo visto in queste ore — tra Sharm el‑Sheikh, Gerusalemme e le capitali chiamate a garantire — merita di essere mantenuto nel tempo. Continueremo a raccontarlo con attenzione, perché ogni parola pesi quanto gli impegni presi sul terreno.
