Pierluigi Serlenga richiama l’urgenza di una svolta: senza un’azione corale lungo la supply chain, la circolarità resta un traguardo lontano. La frammentazione dei settori in Italia pesa sulle scelte strategiche; l’innovazione tecnologica può cambiare il passo, ma servono filiere coordinate e istituzioni al fianco delle imprese per trasformare i residui in valore.
La leva nascosta nella filiera
Quando Pierluigi Serlenga, alla guida di Bain & Company Italia, mette al centro la supply chain come vettore dell’economia circolare, coglie un punto spesso trascurato: la filiera concentra costi, opportunità e rischi operativi. Sulla filiera si misurano gli impatti ambientali e la capacità di rigenerare risorse; qui si costruiscono standard condivisi, tracciabilità e qualità dei materiali di ritorno. È il luogo dove l’innovazione incontra i conti economici, e dove la collaborazione tra funzioni aziendali decide se la circolarità resta un principio o diventa pratica quotidiana. Secondo analisi diffuse dal mondo tecnologico, oltre il novanta per cento delle emissioni legate a prodotti e servizi si annida proprio nella catena di fornitura: senza filiere integrate, la sostenibilità non si radica.
Questa centralità emerge con forza a Milano, nel confronto sul tema della gestione circolare dei residui industriali, dove la prospettiva operativa scavalca quella di immagine. Gli strumenti decisivi non sono slogan, ma piattaforme dati, standard per il rientro dei materiali, modelli contrattuali che premiano il riuso. È qui che la teoria si traduce in margini, resilienza e minori esposizioni ai prezzi delle materie prime. Le testimonianze raccolte nel dibattito italiano degli ultimi mesi convergono: il procurement orienta il cambiamento quando riesce a legare obiettivi ambientali, qualità dei fornitori e risultati economici misurabili, unendo funzioni interne e partner esterni in un unico disegno.
Frammentazione: il collo di bottiglia che rallenta la circolarità
Il nodo che Serlenga indica con chiarezza è la frammentazione industriale. In Italia, filiere popolate da migliaia di attori medio-piccoli faticano a fare massa critica su standard comuni, interoperabilità dei dati e investimenti abilitanti. Il risultato è un’adozione lenta di pratiche circolari che richiedono coordinamento e visibilità di processo. Non basta l’eccellenza del singolo: occorre un’intesa su ambiti non competitivi, guidata dai capi filiera e sostenuta da attori istituzionali, compreso il governo, per accelerare autorizzazioni, incentivi e piattaforme condivise. Nel confronto pubblico emergono richiami ricorrenti a superare proprio questa dispersione, considerata un ostacolo tanto all’innovazione digitale quanto alla sostenibilità.
La fotografia della giornata milanese restituisce un ecosistema vivace ma ancora disomogeneo. Voci del mondo industriale sottolineano che il settore della circolarità cresce, eppure il mosaico di regole, competenze e scala resta incompleto. La sfida è costruire alleanze di filiera su tracciabilità, qualità del materiale riciclato e condivisione dei dati, senza intaccare la concorrenza sul prodotto. È un passaggio culturale oltre che organizzativo: decidere insieme ciò che non si compete, per liberare investimenti in piattaforme comuni e ridurre tempi e costi di adozione. In questa direzione, più voci hanno ricordato come l’innovazione digitale diventi acceleratore solo se l’ecosistema smette di muoversi in ordine sparso.
Milano, il confronto che mette a terra le strategie
Il dibattito si è acceso alla Sda Bocconi School of Management, giovedì 9 ottobre 2025, nell’evento “Creare valore economico sostenibile attraverso la gestione circolare dei residui industriali”, organizzato con Omnisyst. La giornata, nel cuore di Via Sarfatti, ha riunito accademia, imprese e consulenza per incrociare dati, casi e strategie. L’agenda ha incluso gli interventi di studiosi e manager, tra cui Francesco Perrini e lo stesso Serlenga, con un focus sul nesso fra tecnologia, resilienza operativa e ritorni economici della circolarità. La cornice è stata dichiarata con chiarezza: trasformare residui in risorse, mitigare rischi e potenziare competitività.
Nelle dichiarazioni raccolte in giornata, Perrini ha rimarcato come l’economia circolare non sia solo un dovere ambientale ma una fonte concreta di valore per le imprese: riduzione dei costi, aumento della produttività e crescita dei ricavi quando gli scarti si trasformano in materie prime seconde. Un messaggio in linea con il taglio operativo dell’incontro milanese e rilevante per i settori più esposti alla manifattura e alla trasformazione industriale. Questa lettura economicamente orientata è stata documentata dalle cronache dell’evento, che hanno insistito sul ruolo delle tecnologie digitali come acceleratore dell’intero processo.
Tecnologie che fanno la differenza
La spinta all’innovazione, richiamata da Serlenga, trova conferme in esperienze internazionali. Nel settore aeronautico, Rolls-Royce ha strutturato un modello di circolarità sui metalli ad alto valore, come le superleghe a base di nichel, con programmi di rientro degli sfridi in catene chiuse e servizi di manutenzione che privilegiano riparazione e vita utile estesa. La letteratura tecnico-economica descrive benefici misurabili: efficientamento dei flussi materiali, riduzione dei costi e accesso controllato a componenti da reimpiegare o rifondere, con una quota significativa di leghe che rientra nel ciclo in qualità aeronautica.
Nel 2025 si sono aggiunti segnali concreti anche sul versante del titanio, materia critica per l’aerospazio: iniziative industriali hanno avviato la produzione di lingotti da materiale riciclato in collaborazione con operatori specializzati, mentre istituzioni europee hanno indicato nella chiusura del ciclo del titanio una via per ridurre la dipendenza dalle importazioni e rafforzare l’autonomia strategica. È una traiettoria che parla il linguaggio della sicurezza delle forniture, dei costi e della sostenibilità, e che sostiene sul campo la tesi di chi vede nella tecnologia la leva per sbloccare la circolarità.
Il quadro italiano tra primati e dipendenze
Dentro questo scenario, i dati di contesto aiutano a leggere l’urgenza delle indicazioni di Serlenga. Il Rapporto 2025 del Circular Economy Network fotografa un’Italia ai vertici europei per livello di circolarità e produttività delle risorse, ma ancora gravata da una forte dipendenza dall’import di materiali. Nel 2023, quasi la metà del fabbisogno nazionale è arrivato dall’estero, con un conto salito in pochi anni a centinaia di miliardi di euro. Un paradosso che rende la circolarità una strategia industriale, oltre che ambientale, per diminuire rischi e volatilità.
Il segnale è univoco: accelerare su recupero, riuso, materie prime seconde e prevenzione degli sprechi conviene al sistema produttivo. In parallelo, la spinta della domanda di sostenibilità e la pressione regolatoria rendono la tracciabilità dei materiali un asset competitivo. In questa ottica, l’appello a “fare sistema” lungo la filiera – su standard tecnici, dati condivisi e infrastrutture di riciclo – diventa la condizione per trasformare la leadership italiana in un vantaggio duraturo. Quando la catena valore si allinea, l’innovazione smette di essere un costo e diventa performance misurabile.
Domande in primo piano
Perché la frammentazione italiana ostacola la circolarità? Perché impedisce standard comuni, fa lievitare i costi di coordinamento e rallenta investimenti in piattaforme condivise. Senza regole tecniche e dati interoperabili lungo la filiera, non c’è massa critica per chiudere i cicli dei materiali con qualità e velocità. Superare la dispersione significa definire ciò che si condivide senza toccare la concorrenza, così da accelerare autorizzazioni, tracciabilità e ritorni misurabili per tutti gli attori coinvolti.
Che ruolo giocano le tecnologie digitali nel passaggio alla circolarità? Sono l’infrastruttura invisibile: abilitano tracciabilità dei materiali, passaporti digitali, analisi dei dati di processo e nuovi modelli contrattuali che premiano riuso e riparazione. Se però l’ecosistema resta frammentato, il digitale non dispiega il suo potenziale. Quando le imprese si coordinano, le piattaforme dati diventano il ponte tra sostenibilità e marginalità, facilitando audit, certificazioni e accesso a finanziamenti legati a obiettivi ambientali.
Quali insegnamenti arrivano dai casi dell’aerospazio? Che la circolarità funziona quando è progettata a monte e sostenuta da contratti di servizio che privilegiano la vita utile. Programmi di rientro degli sfridi e chiusura dei cicli su leghe pregiate mostrano come si riducano rischi di approvvigionamento e costi. L’Europa, intanto, spinge a trattenere e valorizzare rottami strategici per diminuire dipendenze esterne e rafforzare la competitività della sua manifattura avanzata.
Come si traduce “fare sistema” per le filiere italiane? Nella pratica significa accordi su standard non competitivi, investimenti congiunti in impianti e piattaforme, condivisione di dati di qualità e gestione coordinata dei residui. I capi filiera guidano il percorso, mentre istituzioni e regolatori allineano incentivi e norme. È una responsabilità condivisa: solo così l’innovazione smette di essere un esperimento isolato e diventa routine industriale capace di generare valore.
Riflettori accesi sulle scelte che contano
Il messaggio che arriva da Milano è limpido e scomodo: senza un salto di maturità organizzativa, la circolarità resta promessa. L’appello di Serlenga a un’azione di filiera, con i capi filiera a guidare e le istituzioni a sostenere, indica una via concreta. Non c’è tempo per attendere che il mercato faccia da sé: la collaborazione su ciò che non è competitivo, unita a tecnologie e dati affidabili, può trasformare i residui industriali in vantaggio competitivo, stabilità dei costi e migliori performance per l’intero sistema produttivo.
