Donald Trump annuncia che Israele e Hamas hanno sottoscritto la prima fase di un piano di pace per Gaza, con il rilascio imminente degli ostaggi e il riposizionamento delle truppe israeliane su una linea concordata. Una svolta che accende speranze e apre interrogativi, mentre i mediatori di Qatar, Egitto e Turchia rivendicano un ruolo decisivo nei negoziati.
L’annuncio che cambia il ritmo della crisi
Il messaggio è arrivato direttamente da Truth Social: “ALL of the Hostages will be released very soon”. Il presidente Donald Trump ha celebrato l’intesa sottolineando il ritiro delle IDF su una linea prestabilita e il principio di trattamento equo per tutte le parti. Anche i canali ufficiali della Casa Bianca su X hanno rilanciato l’obiettivo del rilascio imminente. Nelle ore successive, racconti e reazioni hanno iniziato a intrecciarsi: tra questi, i messaggi di gratitudine delle famiglie degli ostaggi, che hanno salutato l’annuncio come una promessa di vita restituita dopo due anni di angoscia e attese estenuanti. Un sospiro, non ancora un sollievo, ma finalmente un orizzonte possibile.
La mossa ha un risvolto diplomatico immediato. In una dichiarazione, Trump ha fatto sapere ad Axios di essere pronto a recarsi in Israele nei prossimi giorni, accogliendo l’invito del premier Benjamin Netanyahu a un intervento alla Knesset. Dal racconto della Casa Bianca trapela anche una telefonata “ottima” tra i due leader, mentre gli inviati statunitensi intensificano i contatti con gli interlocutori regionali. L’annuncio segue tre giorni di colloqui indiretti in Egitto e arriva in un frangente simbolico, a ridosso del secondo anniversario del 7 ottobre 2023, quando tutto ha cambiato rotta.
Cosa c’è nella prima fase e come scatterà
Secondo le tracce condivise con i mediatori, la prima fase prevede cessazione delle ostilità, rilascio dei restanti ostaggi e ritiro militare israeliano verso una linea concordata. Le tempistiche indicate da fonti vicine al dossier parlano del rilascio di 20 ostaggi vivi in cambio di un ampio scambio di prigionieri palestinesi, con un orizzonte operativo di circa 72 ore dall’entrata in vigore dell’intesa. Sulle cifre dello scambio emergono forchette differenti: fino a 1.700 detenuti secondo ricostruzioni di stampa, fino a 2.000 in altre letture del negoziato. Il Qatar ha confermato l’accordo su “tutte le disposizioni e i meccanismi” di attuazione della prima fase.
Il quadro procedurale, descritto da media regionali e internazionali, ruota intorno al voto formale del governo israeliano, al rapido riposizionamento militare entro le prime 24 ore e all’avvio della finestra operativa di tre giorni per l’esecuzione dello scambio e l’ingresso accelerato degli aiuti umanitari nella Striscia. Il tassello egiziano è stato cruciale: i mediatori hanno reso noto che in Sharm el-Sheikh si è chiuso il lavoro tecnico sui meccanismi di implementazione. È l’ossatura di un passaggio fragile ma strutturato, che potrà reggere solo se la sequenza sarà rispettata senza scarti e senza rinvii.
Le voci in campo: Gerusalemme, Gaza e i mediatori
Da Gerusalemme, Benjamin Netanyahu ha parlato di “grande giorno” e promesso che “con l’aiuto di Dio li riporteremo tutti a casa”, ringraziando le IDF e i partner statunitensi per l’impegno. Ha annunciato la convocazione del governo per l’approvazione dell’accordo e ha definito l’intesa una vittoria morale, prima che tattica. Anche il presidente Isaac Herzog ha legato l’auspicio a un’immagine biblica di ritorno, mentre i familiari degli ostaggi, nelle piazze e sui social, hanno incrociato fede e prudenza.
Da Gaza, Hamas ha definito l’intesa “un passo per la fine della guerra”, collegando il rilascio degli ostaggi all’uscita delle truppe israeliane dalla Striscia, all’arrivo degli aiuti e allo scambio di prigionieri. Il movimento ha chiesto ai mediatori di garantire l’applicazione “senza elusioni o ritardi” e di vigilare sulla piena esecuzione delle clausole. Accanto a Qatar ed Egitto, anche la Turchia ha rivendicato un ruolo attivo, mentre il presidente Trump ha pubblicamente ringraziato tutti i facilitatori regionali coinvolti nel mosaico dei contatti.
Ferite aperte e nodi irrisolti: il contesto che non scompare
Il conflitto, esploso con l’attacco del 7 ottobre 2023, ha travolto famiglie e intere comunità: oltre 67.000 morti a Gaza secondo le autorità locali e circa 1.200 vittime in Israele nella fase iniziale, con 251 persone rapite quel giorno. Gli ultimi conteggi indicano che una parte degli ostaggi non è più in vita. Nel mezzo, due anni di devastazione e una catena di tregue brevi che non hanno spezzato il ciclo di violenza. È con questo peso che la prima fase dell’accordo viene letta come una chance, non come un traguardo.
Resta il capitolo più spinoso: la futura governance della Striscia, il destino dell’ala armata di Hamas, i meccanismi di sicurezza e la ricostruzione. Le ricostruzioni internazionali parlano di un piano in più fasi, con una cornice fino a 21 punti, e di un possibile sforzo multilaterale per rimettere in piedi infrastrutture e servizi essenziali. Ma gli equilibri sul terreno sono delicati e ogni passaggio richiederà verifiche e garanzie, inclusi i controlli sull’ingresso degli aiuti e sulle procedure di scambio dei prigionieri.
Il peso della mediazione e la cornice internazionale
Nelle ore dell’annuncio, Doha ha formalizzato che i mediatori hanno chiuso “tutte le disposizioni e i meccanismi” per avviare la prima fase. Majed Al-Ansari, portavoce del ministero degli Esteri qatariota, ha parlato di un pacchetto che conduce alla fine della guerra, allo scambio di ostaggi e prigionieri e all’ingresso degli aiuti. L’asse con Il Cairo ha gestito i colloqui “indiretti”, mentre Ankara ha confermato di essere in interlocuzione con la leadership di Hamas su richiesta statunitense.
Dal Palazzo di Vetro, il segretario generale António Guterres ha accolto con favore la notizia, definendola un passaggio “disperatamente necessario” e chiedendo il pieno rispetto dei termini, la liberazione “dignitosa” degli ostaggi e un cessate il fuoco permanente, con la macchina delle Nazioni Unite pronta ad ampliare gli aiuti e a sostenere la ricostruzione. È un invito alla responsabilità che suona come bussola pratica: meno slogan, più adempimenti, perché la storia recente conosce già il rischio di promesse che si sbriciolano in pochi giorni.
Domande utili per capire subito cosa cambia
Quando potrebbero tornare gli ostaggi? Le indicazioni raccolte tra Washington, mediatori e fonti israeliane convergono su una finestra molto ravvicinata: tra domenica e lunedì, con margini per un anticipo se la sequenza tecnico‑operativa filerà senza intoppi. La prima fase fissa un perimetro di circa 72 ore dall’entrata in vigore dell’intesa, e prevede contestualmente il riposizionamento delle truppe su una linea concordata per creare le condizioni di sicurezza necessarie allo scambio e all’ingresso massiccio degli aiuti.
Quanti prigionieri palestinesi verrebbero liberati? Le stime variano a seconda delle fonti: alcuni media internazionali parlano di fino a 1.700 persone, includendo detenuti condannati all’ergastolo, mentre altre ricostruzioni elevano l’asticella fino a quota 2.000. È una forbice significativa che riflette liste e criteri in evoluzione, da chiudere entro la finestra di attuazione. La conferma ufficiale, spiegano i mediatori, arriverà con i documenti operativi finali e i nominativi validati dalle parti.
Cosa succede se l’intesa rallenta o deraglia? La lezione degli ultimi due anni è chiara: senza verifiche puntuali e garanzie, ogni tregua può incepparsi. Per questo i mediatori hanno predisposto meccanismi di implementazione e monitoraggio, mentre l’ONU ha messo sul tavolo capacità logistiche per aiuti e ricostruzione. Eventuali ritardi verrebbero affrontati sul piano tecnico e politico, con pressioni mirate per rispettare scadenze e scambi, evitando che la fiducia appena riaccesa si spenga nel giro di poche ore.
Trump parlerà davvero alla Knesset? Dalla sponda americana è arrivata un’indicazione netta: il presidente ha dichiarato di essere “probabilmente” in partenza per Israele e di essere pronto a intervenire in parlamento su invito del premier. La tempistica, spiegano a Washington, si intreccia con le prime fasi di attuazione dell’accordo. Un discorso alla Knesset, se confermato, sarebbe un gesto altamente simbolico mentre si prova a tradurre le parole dell’intesa in atti concreti e verificabili.
Il nostro sguardo: tra sollievo e responsabilità
In queste ore è forte il desiderio di chiamare “pace” ciò che ancora è una soglia. Una soglia importantissima, perché tocca la vita degli ostaggi, il destino dei prigionieri e il futuro dei civili che attendono acqua, cure, riparo. Ma la prova vera comincia adesso: attuare ogni clausola, proteggere i più fragili, rendere trasparenti gli scambi, garantire assistenza e controllo sul terreno. Se questa è davvero la prima pagina di una storia nuova, lo si capirà dal passo successivo. E dalla capacità di tutti di sostenerlo, senza retorica e senza alibi.
