La frattura politica emersa a Parigi dopo le dimissioni di Sébastien Lecornu accende un confronto che tocca direttamente Roma. Nelle parole dello storico Jean-Pierre Darnis, intervistato da Adnkronos, emerge un giudizio netto: una crisi così, in Italia, verrebbe gestita con più strumenti e pratiche di mediazione rispetto alla Francia odierna.
Una crisi che deflagra all’improvviso
Le dimissioni del premier Lecornu, arrivate a poche settimane dalla nomina e a poche ore dall’annuncio dei ministri, hanno fatto precipitare l’instabilità istituzionale. Reuters e il Washington Post raccontano un esecutivo durato meno di un mese, travolto dall’assenza di una maggioranza praticabile, dal ritiro di appoggi chiave e da un clima parlamentare sfilacciato. Nel frattempo, il presidente Emmanuel Macron ha chiesto all’uscente capo del governo un ultimo tentativo di ricucitura, mentre le opposizioni rifiutano tavoli di confronto e invocano nuove urne.
Il corto circuito non nasce dal nulla. La caduta del governo Bayrou a settembre, certificata da più testate internazionali, ha aperto una fase transitoria in cui la ricerca di un equilibrio è rimasta sulla carta. Per Euronews e Al Jazeera, l’asse della crisi resta la legge di bilancio e il nodo del deficit, con numeri che impongono scelte rapide ma che, in assenza di un perimetro politico condiviso, finiscono per paralizzare l’iniziativa dell’esecutivo e irrigidire il confronto tra i blocchi parlamentari.
Il “doppio blocco” del presidenzialismo francese
Nel ragionamento di Darnis c’è un punto che pesa: il sistema presidenziale, in un contesto multipolare e senza una maggioranza definita, finisce ingessato da un “doppio blocco”. Da un lato, la figura di Macron appare logorata dall’erosione dei consensi e dalla frammentazione dell’Assemblée nationale; dall’altro, l’assenza di una cultura stabile delle coalizioni rende più difficile persino immaginare formule di scopo. È un messaggio che l’accademico ribadisce spiegando perché, allo stato attuale, l’architettura istituzionale non facilita mediazioni durature.
Qui si inserisce il raffronto con l’Italia. Darnis ricorda la capacità – nel passato recente – di ricorrere a soluzioni tecniche o istituzionali di transizione per traghettare il Paese nei tornanti più delicati, dall’esperienza di Carlo Azeglio Ciampi a quelle di Mario Monti e Mario Draghi. In Francia, sottolinea, nessuna di queste ipotesi sta emergendo con forza. Il punto non è “importare” modelli, ma ammettere che senza una pratica consolidata di coalizione e compromesso il presidenzialismo perde la sua funzione di arbitro efficace.
Urne d’autunno? Le regole e le ipotesi sul tavolo
Risolta la finestra costituzionale che impediva una nuova dissoluzione a meno di un anno dalle elezioni, Macron ha riacquistato la facoltà di sciogliere l’Assemblée nationale. L’articolo 12 della Costituzione – ricordato da Légifrance e dal portale ufficiale dell’Assemblea – stabilisce il vincolo del “blocco di un anno” e fissa tempi stretti per il ritorno alle urne, elemento che rende plausibile un voto già a novembre se le trattative fallissero.
Nelle ultime ore, pressioni incrociate da destra e da sinistra chiedono uno sbocco elettorale: il Guardian e Reuters segnalano l’appello dell’ex premier Édouard Philippe e il no della destra radicale a ogni negoziato di palazzo. Se l’operazione di ricomposizione affidata a Lecornu non porterà risultati entro i tempi indicati dall’Eliseo, lo scenario delle urne anticipate torna centrale; tuttavia, i sondaggi e i numeri in Parlamento lasciano presagire un quadro ancora frammentato, con il rischio di un’altra legislatura senza maggioranza.
Bilancio, investimenti e una macchina ferma ai box
Oltre la tattica, c’è la sostanza: senza una legge finanziaria, il Paese resta in gestione corrente, incapace di imprimere decisioni strutturali e di dare continuità agli investimenti. Euronews ricostruisce come la presentazione del bilancio sia divenuta impraticabile dopo l’addio di Lecornu, con il calendario che scivola e i tempi tecnici che non consentono scorciatoie. Nel frattempo, le tensioni pesano sulle scelte amministrative e spingono le forze politiche a misurarsi con responsabilità che non possono più essere diluite.
La finanza guarda e reagisce. Un’analisi del Financial Times collega l’instabilità alla salita dei rendimenti dei titoli di Stato francesi e all’allargamento dello spread con i bund, mentre il deficit oltre il 5% del PIL e un debito attorno al 114% aggravano l’umore dei mercati. Non è solo un termometro di giornata: il messaggio, avverte il quotidiano economico, è che la credibilità fiscale si costruisce con maggioranze stabili e riforme coerenti, non con governi a geometria variabile.
La “mancata italianizzazione” e il nodo delle coalizioni
Nel nostro mestiere di cronisti, la parola chiave che ritorna è coalizione. Darnis osserva che in Francia manca l’abitudine a costruire piattaforme comuni, a definire perimetri programmatici minimi e a modularli in esecutivi di scopo. Qui si misura la distanza con l’Italia, dove – nei momenti più tesi – una regia istituzionale ha permesso di comporre soluzioni temporanee. È una differenza culturale e procedurale, non un giudizio di valore, ma aiuta a spiegare perché oggi Parigi appaia più rigida di Roma.
Il ragionamento tocca anche la funzione del presidente. In una fase di equilibrio instabile, nota Darnis, sarebbe auspicabile un ruolo d’arbitro capace di abilitare maggioranze diverse su singoli dossier, senza rinunciare all’indirizzo politico. L’architettura della Quinta Repubblica è disegnata per momenti di chiarezza, ma fatica quando la mappa si spezza in tre o quattro blocchi, ciascuno essenziale e al tempo stesso insufficiente. Da qui l’impasse che rende ogni passo un azzardo.
Tatticismi verso il 2027: consenso largo, leadership rare
Il professore individua un’ulteriore trappola: la corsa alle presidenziali 2027 congela la politica nell’immediato. Troppi leader orbitano tra il 10 e il 15% dei consensi, pochi – se non nessuno – sembrano in grado di costruire l’egemonia del 20% che proietta automaticamente al secondo turno, come riuscì a Macron in passato. In questo spazio, il Rassemblement National resta candidato naturale al ballottaggio con Marine Le Pen o Jordan Bardella, spingendo gli altri a definire sé stessi più per negazione che per proposta.
Intanto, i richiami a scioglimenti e a voti anticipati si moltiplicano come leve di pressione. Tra chi chiede elezioni ci sono la destra radicale e figure dell’area centrista; ma gli osservatori internazionali, dal Guardian a Reuters, avvertono che nuove urne potrebbero restituire lo stesso mosaico, con un altro giro di consultazioni e un’altra stagione di minoranze. È il paradosso dell’ora: si invoca il voto come soluzione, pur sapendo che potrebbe non risolvere nulla.
Domande lampo per orientarsi
Macron è obbligato a dimettersi? No. La legge non lo impone e il mandato scade nel 2027. Le richieste politiche di passo indietro esistono, ma hanno natura squisitamente politica, non giuridica, come si evince dalla cronaca internazionale e dalle ricostruzioni di testate come Reuters e il Guardian negli ultimi giorni.
Quando si potrebbe votare per le legislative? Dopo un anno dall’ultima dissoluzione, l’Eliseo può sciogliere l’Assemblea. Le regole dell’articolo 12 fissano finestre temporali strette: se maturasse la decisione, un voto in novembre sarebbe compatibile con i tempi tecnici, ferme restando le valutazioni politiche sulle trattative in corso.
Perché non nasce un governo tecnico? Perché la cultura delle coalizioni in Francia è fragile e i blocchi parlamentari diffidano di formule di scopo. Darnis lo sottolinea con chiarezza, richiamando l’esperienza italiana: in assenza di una pratica condivisa di mediazione, il presidenzialismo resta senza leve per comporre maggioranze variabili su dossier cruciali.
Che cosa preoccupa i mercati? L’instabilità politica sommata a deficit e debito elevati. Le analisi economiche pubblicate dal Financial Times segnalano l’allargamento degli spread e rendimenti in salita, segno che la pazienza degli investitori dipende dalla capacità di definire una rotta fiscale credibile e sostenuta da numeri parlamentari solidi.
Una scelta che pesa sul futuro europeo
Nel nostro sguardo c’è una convinzione semplice: la via d’uscita non sta nel gesto eclatante, ma nella costruzione paziente di un perimetro comune. La Francia ha le energie civili, economiche e istituzionali per farlo; serve un quadro politico che le rimetta in moto. L’Italia ha imparato che la mediazione non è un ripiego, ma un metodo: in tempi incerti, è la differenza tra la retorica delle bandiere e la responsabilità di governo. Oggi, questo è il discrimine che Parigi è chiamata a superare.
