Un confronto già incandescente sul significato delle parole e sul peso della memoria si è riacceso con forza. Luciano Belli Paci, figlio di Liliana Segre, punta il dito contro Francesca Albanese, accusandola di un’attenzione morbosa verso sua madre e di agire più da militante che da giurista. L’episodio televisivo che ha innescato la scintilla non è marginale.
Il clima del dibattito
Nel cuore della discussione non c’è solo una divergenza lessicale, ma una contesa su come raccontare la tragedia di Gaza senza tradire la verità dei fatti né impoverire la complessità del diritto internazionale. È in questo solco che si colloca l’intervista concessa da Belli Paci al Corriere della Sera, nella quale afferma che Francesca Albanese appartiene a una categoria “ossessionata” da sua madre. Un giudizio duro, maturato – spiega – dopo un precedente social e rafforzato da quanto accaduto in tv, dove una sua uscita di scena ha fatto rumore, alimentando accuse e precisazioni a catena.
Nel nostro lavoro di verifica, abbiamo incrociato i passaggi chiave: l’intervista su Corriere.it in cui l’avvocato elenca le ragioni del suo dissenso, il racconto del programma di La7 con le puntualizzazioni dei conduttori, e le ricostruzioni che hanno dato conto della tensione generata dal riferimento a Segre. Dalla stampa nazionale emergono due linee: da un lato l’accusa di un atteggiamento militante attribuito ad Albanese; dall’altro la versione televisiva che parla di un’uscita concordata per impegni. I fatti verificati disegnano un quadro complesso, non riducibile a una sola cornice interpretativa.
Dalle parole allo studio televisivo: la miccia accesa
La sera del 5 ottobre, durante In Onda, Francesca Albanese si alza e lascia lo studio mentre un altro ospite, Francesco Giubilei, richiama la posizione di Liliana Segre sull’uso della parola “genocidio”. Il gesto scatena l’immediata lettura morale dell’accaduto, con giudizi severi in diretta. Poco dopo, però, arriva la puntualizzazione del conduttore Luca Telese: l’uscita era già prevista per le 21 per un altro impegno. Anche CorriereTv e l’agenzia Ansa ricostruiscono la sequenza, riportando che la relatrice Onu respinge ogni accusa di fuga dal confronto e denuncia la “strumentalizzazione” del nome di Segre. I tempi, in ogni caso, hanno aggravato l’equivoco.
La miccia era sensibile: chiamare in causa Segre significa toccare una coscienza collettiva che in Italia resta un riferimento morale. Nella serata di La7 il contesto era già polarizzato, e la sovrapposizione tra tempistica dell’uscita e citazione della senatrice a vita ha prodotto un cortocircuito. Il giorno successivo, la discussione si sposta dai salotti tv alle colonne dei giornali e ai social, dove intervengono direttori, conduttori e leader politici a decifrare un gesto che, per alcuni, è stato una sgarbata presa di distanza e, per altri, un impegno rispettato male interpretato. L’ambiguità diventa così il vero protagonista della serata.
Che cosa ha detto davvero Liliana Segre
Nel vortice delle interpretazioni, vale una precisazione decisiva: Liliana Segre ha più volte respinto l’uso disinvolto del termine “genocidio” per Gaza, senza per questo attenuare la condanna di stragi di civili e di possibili crimini di guerra. In un intervento citato dalla stampa nazionale, la senatrice a vita ha ammonito contro l’abuso di una parola dal peso storico e giuridico specifico, ribadendo la necessità di piangere i bambini di ogni nazionalità e di denunciare le violenze ovunque si consumino. È una linea che rifiuta semplificazioni e pretende misura, senza cedere alla neutralità morale.
Il punto non è l’indifferenza, ma il rigore: nelle ricostruzioni raccolte, Segre parla di “repulsione” per il governo Netanyahu e per una destra definita estremista, e insieme respinge l’idea che tutto sia riducibile a una sola parola—genocidio—la cui estensione indebita rischia di intossicare il confronto. È su questo crinale che i media hanno valorizzato le sue riflessioni: distinguere non per sottrarre empatia, ma per mantenere un linguaggio capace di sostenere la responsabilità. Una posizione che il figlio richiama per respingere letture sbrigative sulle intenzioni della madre.
“Ossessione” e memoria: l’affondo di Luciano Belli Paci
Nell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera, Luciano Belli Paci definisce Albanese “ossessionata” da sua madre e ricorda un episodio che lo aveva già colpito: la foto della relatrice Onu davanti a un murale con il volto di Segre e la parola “indifferenza”, accompagnata dall’hashtag #GazaGenocide. A suo avviso, quel gesto metteva artificialmente in contraddizione l’impegno etico di Segre con la sua scelta di non usare il termine “genocidio”. Un’accusa netta, dentro la quale vibra il tema più ingombrante: quando la memoria viene piegata come strumento di contesa, il dibattito perde ossigeno.
Altre ricostruzioni di testate online hanno ripreso quell’immagine, contestualizzandola nei giorni di massima esposizione di Albanese, quando le sue analisi sul diritto internazionale e i suoi interventi pubblici erano all’apice della visibilità. Anche in quelle cronache, la foto al murale è letta come un tassello di una strategia comunicativa che ha irrigidito le posizioni, trasformando un dissenso giudiziario in un urto simbolico con la figura di Segre. La dimensione pubblica, in quei frangenti, ha divorato le sfumature.
Il nodo lessicale e giuridico
Nella sua intervista, Belli Paci chiama in causa il confronto tra studiosi: cita Marcello Flores e Andrea Graziosi come riferimento del dibattito scientifico in Italia, sottolineando che tra i due non c’è piena convergenza sull’impiego del termine “genocidio” per la guerra di Gaza. La stampa ha dato conto di prese di posizione improntate alla cautela terminologica, in particolare da parte di Flores, che invita a non confondere categorie giuridiche e indignazione morale. Segno che la discussione, sul piano accademico, resta aperta e non si presta a verdetti sommari.
Il lessico conta perché costruisce responsabilità. Chiamare “genocidio” un conflitto implica requisiti probatori specifici—soprattutto l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo protetto—e consegna il giudizio finale a sedi competenti. Nel frattempo, la cronaca italiana restituisce due rischi speculari: da un lato l’inflazione delle parole, che può annullarne la forza; dall’altro il timore di nominarle, che può apparire come una rimozione. Tenere insieme pietà per le vittime e precisione giuridica è l’unica via per non dilapidare credibilità.
Quando il confronto diventa arruolamento
“La guerra è stata importata nel dibattito”, osserva Belli Paci: un’immagine che restituisce l’asprezza dei toni e la tentazione dell’arruolamento, in cui ogni parola viene letta come un segnale di appartenenza. In questo contesto, l’episodio di Reggio Emilia diventa esemplare: durante una cerimonia pubblica, il sindaco Marco Massari cita la necessità di liberare gli ostaggi israeliani per avviare un percorso di pace e viene travolto dai fischi, quindi ripreso in pubblico da Albanese. Il gesto provoca un’onda emotiva e politica difficile da ricomporre.
Il video e le cronache locali raccontano la scena e i suoi echi: l’applauso e il dissenso si sovrappongono, mentre la frase del primo cittadino diventa oggetto di riprovazione e correzione immediata. È qui che il figlio di Segre vede un problema più ampio del singolo episodio: la riduzione del confronto pubblico a un tribunale morale istantaneo, dove gli avversari vengono messi alla gogna e la complessità scompare. Quel che resta è la fatica di convivere con il dissenso senza provarne rigetto.
Il precedente social e la “polizia del pensiero”
Per Belli Paci il precedente del murale non è un dettaglio di stile, ma l’emblema di un meccanismo che sposta il fuoco dalla sostanza al simbolo. Se l’hashtag #GazaGenocide accostato al volto di Segre suggeriva una contraddizione morale, allora la parola diventava un’arma puntata sulla storia di una testimone. Di qui l’accusa, rivolta non solo a Albanese, di una “polizia del pensiero” che stabilisce non soltanto cosa dire, ma anche come dirlo. È la deriva che, secondo l’avvocato, frantuma il confronto democratico.
Nel nostro riscontro, i tasselli coincidono: la linea di Segre sul linguaggio, il percorso mediatico dell’episodio televisivo, le cronache del rimprovero in teatro, le analisi editoriali che hanno stigmatizzato l’idea di mettere in discussione la voce di una sopravvissuta. Tutto converge su un punto: si può dissentire radicalmente sulle categorie giuridiche senza negare la centralità della memoria e il rispetto per chi ne è custode vivente. È il discrimine che distingue il dibattito acceso dalla delegittimazione personale.
Tre domande per orientarsi
Si può criticare l’uso della parola “genocidio” senza minimizzare la tragedia di Gaza? La questione è più delicata di quanto appaia: la parola ha un significato giuridico preciso e un’enorme risonanza morale. Sottolineare la necessità di usarla con rigore non significa affievolire l’orrore per le vittime, né sottrarsi alla denuncia di crimini gravissimi. È ciò che emerge dagli interventi ricostruiti, dove il richiamo alla prudenza lessicale convive con la condanna delle stragi di civili e l’appello alla protezione dei più vulnerabili.
Sì, se la prudenza nasce dal rispetto del diritto e non dalla paura di vedere. La sofferenza dei civili non si misura in etichette, ma la giustizia ha bisogno di parole esatte. L’indignazione resta intatta; il rigore serve a dare peso legale e responsabilità a ciò che diciamo, per evitare che la rabbia travolga la possibilità di un giudizio condiviso.
Perché l’uscita dallo studio di “In Onda” ha scatenato un caso politico-mediatico? Perché in diretta le immagini si sovrappongono ai significati: la tempistica del gesto, coincidente con la citazione di Segre, è stata letta come un rifiuto di ascoltare. Le precisazioni successive sul carattere concordato dell’uscita non hanno spento la polemica, già alimentata dai social. In un contesto saturo di simboli, lo spigolo di un dettaglio diventa subito prova, e l’interpretazione prende il posto della verifica.
Perché nelle arene televisive ogni gesto vale doppio: quello che è e quello che sembra. Senza una cornice condivisa, il pubblico riempie i vuoti con ciò che desidera vedere. E quando c’è di mezzo la memoria di chi ha attraversato l’orrore, l’asticella emotiva sale ancora, trasformando un ritardo o un impegno in una colpa presunta.
Esiste uno spazio per un confronto non tribunizio tra diritto internazionale e memoria storica? Gli studiosi lo invocano da tempo: mettere ordine nelle categorie, evitare inflazioni semantiche, riconoscere che il giudizio sui crimini estremi appartiene anche a sedi giurisdizionali. Al tempo stesso, la memoria chiede ascolto e rispetto, non delegittimazione. La strada è stretta, ma praticabile: linguaggi diversi possono incontrarsi se rinunciano alla tentazione di trasformare l’avversario in un bersaglio morale.
Sì, se accettiamo che il dolore non è una clava e il diritto non è un alibi. La memoria custodisce un monito; il diritto costruisce responsabilità. Quando camminano insieme, proteggono le parole dall’abuso e le persone dalla violenza simbolica. È lì che il dibattito ritrova dignità e smette di chiedere “da che parte stai” prima ancora di ascoltare.
Uno sguardo che non cede alla semplificazione
In questa storia nessuno vince davvero quando lo scontro si gioca sull’umiliazione dell’altro. Da una parte c’è l’urgenza di dare nome alle cose senza piegare il linguaggio; dall’altra, la necessità di non smarrire il rispetto per chi ha attraversato l’inenarrabile e ne porta il testimone. Il nostro mestiere ci impone un criterio semplice e severo: verificare, distinguere, raccontare. Non per addolcire la realtà, ma per renderla comprensibile senza tradirla. La forza di una democrazia si misura anche nella sua capacità di reggere parole difficili senza spezzarsi.
