Un benessere aziendale che promette tanto ma convince a metà: è questo il quadro che emerge dal GEBS 2025, che identifica nel “Grande Gap” lo scarto tra l’ottimismo delle imprese e la percezione dei lavoratori. Una distanza che pesa su fiducia, ascolto e appartenenza, e che chiede un cambio di rotta concreto.
Una frattura che tocca fiducia e appartenenza
Il “Grande Gap” racconta una contraddizione netta: il 77% delle aziende è convinto di offrire un welfare aziendale efficace, ma solo il 54% dei dipendenti si dice soddisfatto. Non è un problema di facciata, ma una crepa che corrode il rapporto tra persone e organizzazioni. Quando il welfare non si incastra nella realtà delle vite di tutti i giorni, il valore non si accende. Il risultato è un benessere percepito come distante, talvolta opaco, che fatica a generare motivazione, fiducia e senso di appartenenza. Il segnale è chiaro: non basta sommare benefit, serve orchestrare significato.
Il titolo di quest’anno, “Il Grande Gap”, richiama volutamente l’eco del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald: un ponte simbolico per descrivere una condizione in cui si rema controcorrente, spinti indietro dalle abitudini e da modelli che non rispondono più ai bisogni. È qui che si incrina la competitività: la distanza tra intenzioni e percezioni non è una percentuale, ma una tensione che scalfisce il capitale più prezioso, quello della fiducia reciproca. Senza ascolto, il benessere non attecchisce; senza appartenenza, le strategie perdono respiro.
Uno sguardo europeo sui livelli di coinvolgimento e sulla distanza italiana
Il quadro si fa ancora più nitido guardando all’employee engagement. In Italia, solo il 65% dei lavoratori si sente davvero coinvolto nel proprio lavoro. Il confronto europeo è impietoso: Germania al 77%, Regno Unito all’88%, Paesi nordici come Svezia e Finlandia al 91%, e i Paesi Bassi al 90%. Non sono semplici differenze statistiche: indicano ecosistemi organizzativi dove benessere e partecipazione sono parte integrante della strategia, non un’aggiunta marginale. L’Italia, in questo scenario, appare indietro nel trasformare le intenzioni in pratiche riconosciute e utili.
Questa distanza non si colma con un catalogo più ampio di agevolazioni, ma con interventi che parlino la lingua dei bisogni reali. La partecipazione cresce quando il welfare intercetta emozioni, aspettative e priorità quotidiane. Lì dove le aziende mettono al centro il vissuto delle persone, il coinvolgimento segue. Al contrario, soluzioni standardizzate e poco contestualizzate finiscono per restare sullo sfondo, invisibili. È un passaggio culturale prima ancora che organizzativo: comprendere, tradurre, rendere concreto.
Lo studio e il perimetro della ricerca
Il report nasce dal gruppo Epassi, leader europeo nelle soluzioni digitali per gli employee benefit, che con l’acquisizione dell’italiana Eudaimon nel 2023 ha ampliato uno sguardo europeo sul welfare aziendale. Il GEBS 2025 si fonda su un campione esteso: 6.000 dipendenti e 1.435 dirigenti e professionisti HR di aziende con oltre 50 addetti. Una base empirica solida che fotografa con chiarezza lo scarto tra ciò che le imprese progettano e ciò che i lavoratori vivono, mettendo in luce aree di forza e, soprattutto, zone d’ombra.
La ricerca, realizzata insieme a Pole Star Advisory e alla Aalto University School of Business, restituisce una realtà articolata. Il messaggio è netto: il welfare non può essere pensato come un insieme di benefit standardizzati, ma come un sistema dinamico e personalizzato, coerente con i bisogni delle persone. Lo scarto tra aspirazioni e realtà diventa così la chiave interpretativa per riprogettare politiche che non si limitino all’offerta, ma riescano a essere percepite, comprese e utilizzate.
I numeri del divario tra offerta e utilizzo
Un punto critico emerge con forza: in Italia, il 35% dei dipendenti dichiara che i benefit disponibili non sono utili o non vengono utilizzati, mentre solo il 3% delle aziende riconosce apertamente il problema. È un doppio scarto, tra efficacia e consapevolezza, che rivela l’urgenza di un allineamento profondo. Se i servizi non incontrano le priorità delle persone, restano scaffali pieni ma mani vuote. Parlare di benessere significa, prima di tutto, rimuovere i punti ciechi e misurare l’impatto reale di ciò che si propone.
Alla prova dei fatti, anche le azioni correttive appaiono insufficienti. Solo il 38% dei datori di lavoro italiani afferma di adottare misure efficaci per migliorare l’esperienza dei collaboratori. Altrove, la rotta è più chiara: nel Regno Unito si sale al 61% e nei Paesi Bassi al 66%. Lo conferma la percezione dei lavoratori: in Italia solo il 32% nota miglioramenti tangibili, contro il 58% nel Regno Unito e il 62% nei Paesi Bassi. Si investe meno e, spesso, in modo poco visibile o inefficace. Qui si annida il cuore del “Grande Gap”.
Il linguaggio del benessere: dal servizio al valore
Colmare il divario, osserva Alberto Perfumo, CEO di Eudaimon, significa ripensare il ruolo dell’impresa nella vita delle persone: non più semplice erogatore di servizi, ma partner di benessere. Un welfare che non parla la lingua della quotidianità non genera valore; e, se non genera valore, diventa invisibile. La distanza nasce anche da un corto circuito di linguaggi: le aziende ragionano in termini di benefit e performance, le persone esprimono bisogni, emozioni, aspettative. Senza una traduzione autentica, l’incontro non avviene.
La soluzione, suggerisce il GEBS 2025, non è ampliare la lista dei benefit, ma costruire coerenza tra strumenti e vissuto. Un welfare aziendale efficace è capace di adattarsi, è personalizzato e disegnato sulle priorità reali. Laddove il benessere si intreccia con le esperienze concrete di lavoro e di vita, prende forma un valore condiviso. Questo passaggio richiede un ascolto continuo e una progettazione che metta al centro le persone, non l’offerta in sé.
Dal bonus all’ecosistema, la svolta culturale
Per Elisa Terraneo, marketing manager di Eudaimon, il tempo dei pacchetti slegati è finito: il welfare aziendale deve diventare un ecosistema integrato, capace di generare valore reale. Ogni iniziativa deve inserirsi in un disegno più ampio, dove il benessere non è un obiettivo di contorno ma il cuore della strategia. Da accessorio a leva di trasformazione culturale: è questo il salto richiesto alle organizzazioni che aspirano a un patto nuovo con le proprie persone.
Il contesto globale indica chiaramente la direzione: dove benessere e soddisfazione dei dipendenti sono centrali, crescono partecipazione e competitività. L’Italia rischia di rimanere ancorata a modelli frammentari e poco rilevanti se non supera la logica del benefit come “extra”. È il momento di costruire ecosistemi di benessere integrato, capaci di rispondere ai bisogni reali e di generare valore condiviso. Allineare intenzioni e percezioni è la vera misura del cambiamento.
