Beatrice Lorenzin chiede che l’Italia assuma la guida di una strategia europea sull’Alzheimer, con regole omogenee di accesso alle cure, percorsi di reclutamento dei pazienti chiari e una governance capace di sostenere l’innovazione senza incrinare gli equilibri economici del sistema sanitario. Un invito che nasce a Bologna, dove il dibattito internazionale ha riportato al centro priorità, responsabilità e tempi certi.
Un mandato europeo che parte da Bologna
Nel congresso di Alzheimer Europe in corso a Bologna, la vicepresidente dei senatori del Partito Democratico e co-presidente dell’Intergruppo parlamentare Neuroscienze e Alzheimer, Beatrice Lorenzin, ha sollecitato un salto di qualità: un piano continentale capace di tradurre i progressi scientifici in decisioni operative, sostenibili e uguali per tutti. L’appuntamento nel capoluogo emiliano non è casuale: dal 6 all’8 ottobre 2025, la città ospita la 35a Conferenza di Alzheimer Europe, un crocevia di ricerca, politiche e pratiche di cura, segno di un’attenzione che si radica nel territorio e guarda oltre i confini.
La prospettiva è ambiziosa e concreta insieme: definire strumenti aggiornati per l’arruolamento dei pazienti, allineare i criteri clinici tra le regioni e costruire una governance che sappia integrare la scienza nella gestione quotidiana dei servizi. Non si tratta solo di aprire nuove strade terapeutiche, ma di assicurare che ogni passo avanti sia davvero percorribile dai malati e dalle loro famiglie. L’evento bolognese, sostenuto dalla rete associativa nazionale, è il perno simbolico di questa chiamata all’azione corale, perché un sistema preparato si costruisce prima che i bisogni esplodano.
Perché serve una regia nuova e coraggiosa
La demenza è oggi la settima causa di morte al mondo, ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità, e l’Alzheimer ne rappresenta la forma più frequente: un dato che da solo basterebbe a imporre la priorità nell’agenda pubblica. La curva demografica aggiunge pressione: popolazioni più longeve significano più persone esposte al rischio, più diagnosi da confermare, più servizi da organizzare. Se la speranza cresce grazie ai progressi della ricerca, cresce anche l’obbligo di ridurre diseguaglianze di accesso, ritardi diagnostici e frammentazione tra territori. È questo lo snodo che rende urgente una strategia europea, capace di mettere in rete competenze e risorse.
In Italia, le stime istituzionali parlano di circa 1,2 milioni di persone con demenza e di un impatto che coinvolge direttamente o indirettamente milioni di cittadini tra caregiver e professionisti. Proiezioni recenti diffuse in occasione della Giornata mondiale 2024 indicano un possibile aumento fino a 2,3 milioni di casi entro il 2050, un’onda lunga che chiede scelte anticipate su diagnosi, presa in carico e sostegno domiciliare. Ignorare il tempo significa consegnare alle famiglie il peso dei vuoti organizzativi; governarlo, invece, vuol dire costruire percorsi che accompagnino, sollevino e proteggano.
Nuove terapie, vecchie diseguaglianze: il nodo dell’arruolamento
Negli ultimi mesi sono arrivate opportunità terapeutiche in grado di rallentare il declino cognitivo in sottogruppi selezionati di pazienti in fase iniziale: un avanzamento che accende aspettative e, insieme, mette a nudo i limiti dei sistemi sanitari. In Europa, il confronto regolatorio ed economico resta aperto: l’EMA ha respinto alcune richieste di autorizzazione, mentre nel Regno Unito l’autorità regolatoria ha concesso via libera a farmaci poi giudicati non sostenibili dal NICE per rapporto costo-beneficio. Quando la scienza accelera, la macchina organizzativa deve saperle tenere il passo.
Un lavoro sul reclutamento omogeneo dei pazienti è quindi decisivo: i nuovi trattamenti richiedono diagnosi precoci, test genetici, risonanze di monitoraggio, équipe multidisciplinari e una rete di centri capace di individuare i candidati idonei. Una riflessione pubblicata in una rivista del gruppo Lancet ha messo in luce come l’accesso alle terapie innovative per l’Alzheimer sconti ancora barriere di prezzo e infrastruttura, con rischi concreti di disparità tra Paesi e persino all’interno degli stessi sistemi nazionali. La sostenibilità è un ponte da costruire insieme, non un ostacolo per pochi.
L’infrastruttura che serve: regole, centri e risorse distribuite
L’Italia ha avviato strumenti che oggi vanno consolidati. Il Piano Nazionale Demenze, varato nel 2014, è accompagnato dal Tavolo permanente che ne monitora implementazione e aggiornamento, con il supporto dell’Istituto Superiore di Sanità. Questo presidio tecnico-politico è il luogo dove trasformare la spinta della ricerca in percorsi standardizzati, criteri condivisi, indicatori misurabili e una rete di CDCD pronta a gestire diagnosi e follow-up. Le buone intenzioni non bastano: servono committenza chiara, responsabilità e verifiche periodiche.
Il capitolo risorse è altrettanto cruciale. Il Fondo per l’Alzheimer e le demenze è stato rifinanziato: +4,9 milioni per il 2024 e +15 milioni per ciascuno degli anni 2025 e 2026, con riparti regionali vincolati a piani e rendicontazioni. Si tratta di un segnale politico che va tradotto in servizi, formazione e percorsi diagnostico-terapeutici realmente operativi, riducendo le difformità tra aree del Paese. Ogni euro deve diventare più prossimità, più diagnosi tempestive, più tutele.
Dieci anni dopo il PND: lezioni e strumenti operativi
Già dal suo mandato di ministra, Beatrice Lorenzin aveva promosso il primo Piano Nazionale Demenze e sostenuto il progetto Interceptor, concepito per individuare come selezionare in modo accurato i pazienti a rischio nelle fasi precoci, quando le terapie possono avere il maggiore impatto. Oggi i risultati di quel lavoro offrono indicazioni pratiche su biomarcatori, combinazioni predittive e reti cliniche, utili per pianificare l’accesso ai nuovi trattamenti con criteri chiari e verificabili. Programmare è l’unico modo per non lasciare indietro nessuno.
Le analisi presentate dall’ISS nel 2025 indicano che l’uso integrato di indicatori clinici, neuroimmagini, genetica e liquido cerebrospinale consente di stimare con buona accuratezza chi progredirà verso la demenza tra i pazienti con disturbo cognitivo lieve. È una mappa del rischio che, se validata su larga scala, può guidare arruolamento e monitoraggio, rendendo sostenibile l’uso di terapie costose e bisognose di controlli ravvicinati. La selezione giusta dei pazienti è il cuore di una sanità equa.
Verso un patto sovranazionale: tempi certi, responsabilità condivise
L’appello che arriva da Bologna è chiaro: serve un Piano europeo per l’Alzheimer e le demenze con finanziamenti trasparenti, obiettivi misurabili e calendari di attuazione definiti. Non è un esercizio di diplomazia, ma la presa d’atto che la sostenibilità – dai costi dei farmaci alle infrastrutture diagnostiche – si gioca su scala continentale. Mettere insieme decisori, comunità scientifica e associazioni pazienti non è un semplice auspicio: è la condizione necessaria perché la speranza diventi realtà clinica.
Il confronto internazionale insegna che l’innovazione senza regole di equità genera nuove fratture. Che si parli di pricing, criteri di eleggibilità, monitoraggi di sicurezza o capacità dei sistemi di somministrare infusioni e risonanze periodiche, la risposta non può essere lasciata alla geografia delle opportunità. Italia ha gli strumenti, l’esperienza e – oggi – la responsabilità di proporsi come guida di questa regia europea, facendo leva su reti cliniche e capitale scientifico già maturi. La posta in gioco è una sanità che non abbandona le persone quando la memoria si fa fragile.
Domande rapide per orientarsi
Che cosa cambia davvero con le nuove terapie anti-amiloide? Parliamo di trattamenti che in specifiche fasi iniziali possono rallentare il declino, ma richiedono selezione rigorosa dei pazienti, monitoraggi radiologici e genetici, e una rete capace di gestire infusioni e controlli. Il beneficio dipende dall’identificazione precoce e dalla sostenibilità organizzativa, come mostrano i dibattiti regolatori e di costo-efficacia in Europa e nel Regno Unito.
Perché il reclutamento dei pazienti è considerato il “vero nodo”? Senza criteri condivisi e percorsi omogenei, si rischiano attese, esclusioni ingiuste e uso inefficiente di risorse. Modelli come Interceptor indicano come combinare biomarcatori e clinica per selezionare chi trae davvero vantaggio, riducendo rischi e costi, e garantendo equità tra regioni e centri.
Che ruolo hanno le associazioni dei pazienti nella nuova governance? Un ruolo centrale: portano voce ed esperienza diretta nei tavoli decisionali, aiutano a definire priorità reali e vigilano sull’equità di accesso. Inserirle stabilmente nei processi significa costruire politiche pubbliche più vicine alle persone, migliorando presa in carico e qualità dei servizi su tutto il territorio.
Le risorse stanziate sono sufficienti? L’incremento del Fondo nazionale per Alzheimer e demenze rappresenta un passo significativo, ma la sfida richiede continuità di finanziamenti, formazione degli operatori e investimenti in diagnostica. L’obiettivo è trasformare i numeri di bilancio in servizi tangibili e uniformi, misurando gli esiti e correggendo rapidamente le criticità.
Uno sguardo che unisce scienza e comunità
La richiesta che sale da Bologna non è un atto formale: è la consapevolezza che l’Alzheimer interroga la nostra idea di sanità e di comunità. Quando una persona inizia a smarrire i ricordi, non può smarrire anche i propri diritti. L’Italia ha tracciato un percorso – piano nazionale, fondi, reti cliniche – e oggi può trasformarlo in leadership europea, indicando una rotta di coraggio, responsabilità e misura. È su questa capacità di unire scienza e umanità che si gioca la credibilità delle nostre scelte.
