Atterrano ad Atene, tra applausi e stanchezza, decine di attivisti appena espulsi da Israele. Nel gruppo c’è anche Greta Thunberg, che denuncia abusi e chiede che gli aiuti raggiungano Gaza. La scena sintetizza una settimana tesa: abbordaggi in mare, rimpatri scaglionati, accuse incrociate e un capitolo ancora aperto su presunti attacchi in Tunisia.
Rientri ad Atene e numeri che cambiano di ora in ora
Nella giornata del 6 ottobre 2025, le autorità israeliane hanno organizzato un nuovo gruppo di rimpatriati: tra loro la svedese Greta Thunberg, destinazione Atene. Le stime ufficiali e giornalistiche oscillano, ma il quadro più consistente raccolto nelle ultime ore indica oltre 170 espulsioni in un’unica tornata e più di 300 complessive nell’arco di pochi giorni, parte di un totale di circa 470-480 fermi durante l’operazione navale. Le ricostruzioni di AP, Reuters e testate europee convergono su ordini di grandezza simili; restano differenze legate ai tempi di notifica dei vari Paesi.
All’arrivo, Thunberg ha parlato di “genocidio” e di sistemi internazionali incapaci di proteggere i civili, parole riprese da più media internazionali. Le autorità israeliane respingono con forza le accuse di maltrattamenti e rivendicano il rispetto delle procedure. Intanto, secondo le stesse fonti, i rimpatri proseguono scaglionati: aerei verso la Grecia, la Slovacchia e altri hub europei, in attesa di ulteriori trasferimenti. Il dato resta dinamico, anche per la varietà di nazionalità coinvolte e le differenti scelte dei singoli detenuti tra espulsione volontaria o procedura giudiziaria.
Chi resta in cella e le condizioni contestate
Secondo il team legale dell’associazione Adalah, circa 150 persone rimangono detenute nel carcere di Ktziot, nel Negev, e una quarantina ha avviato lo sciopero della fame. I racconti dei rilasciati parlano di percosse, umiliazioni, privazioni di sonno e medicine; accuse gravi che richiedono verifiche puntuali. Israele nega recisamente, definendo “menzogne” le denunce e ribadendo che i diritti sono stati garantiti. La distanza tra narrative è ampia, ma le testimonianze circolate nascono da fonti eterogenee e tornano con coerenza su alcuni dettagli.
Gli attivisti arrivati in Europa descrivono notti su pavimenti freddi, luci lasciate accese, cani portati nelle aree di detenzione. In parallelo, alcune ambasciate riferiscono che i propri cittadini sono in condizioni “relativamente buone”. Nell’incrocio tra diplomazia e cronaca, emerge la necessità di documentazione medica e ispezioni indipendenti, così da chiarire con rigore cosa sia accaduto durante e dopo gli abbordaggi avvenuti tra l’1 e il 2 ottobre in alto mare.
Il dossier tunisino: droni, fiamme e responsabilità contestate
Un fronte delicatissimo riguarda gli episodi dell’8 e 9 settembre nel porto tunisino di Sidi Bou Said. Due fonti d’intelligence statunitense, citate da CBS News, sostengono che il premier Benjamin Netanyahu avrebbe approvato direttamente operazioni da un sottomarino con droni e il lancio di ordigni incendiari contro due imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, la Family e la Alma. Le fiamme furono spente dagli equipaggi, senza feriti. Israele, interpellato, non ha risposto; il tema ricade nell’alveo del diritto internazionale umanitario.
Già a ridosso dei fatti, reportage e agenzie avevano documentato gli incendi a bordo e i video diffusi dagli attivisti; le autorità tunisine inizialmente negarono l’uso di droni parlando di inneschi interni e, successivamente, condannarono un “assalto orchestrato” annunciando indagini. La seconda notte vide colpita la Alma con modalità analoghe. Tra le voci presenti sul posto, la relatrice speciale Francesca Albanese richiamò la gravità di un attacco sul territorio tunisino, qualora confermato.
Un nodo geopolitico che supera il Mediterraneo
L’eco delle presunte azioni in Tunisia non si esaurisce nel perimetro locale. Se accertate, configurerebbero una violazione della sovranità di uno Stato nordafricano, con risvolti che chiamano in causa relazioni bilaterali, accordi di sicurezza e la cornice giuridica sul ricorso a armi incendiarie contro obiettivi civili. Per questo la richiesta di inchieste indipendenti non è una formula di rito: è l’unica via per separare propaganda e responsabilità, prima che la spirale di versioni contrapposte si cristallizzi nella memoria pubblica.
Nel frattempo, la cronologia degli eventi della Flotilla si è mossa veloce: dall’attacco denunciato a Sidi Bou Said al trasferimento delle barche verso est, fino agli abbordaggi israeliani del 1-2 ottobre e ai successivi rimpatri. Le cifre – numero di vascelli, attivisti fermati e nazionalità – variano tra comunicati e testate, ma resta fermo l’obiettivo dichiarato dagli organizzatori: rompere un blocco navale in vigore, con intensità diverse, dal 2007.
L’angolo italiano: assistenza consolare e rientro scaglionato
Già tra il 4 e il 5 ottobre una prima ondata di connazionali aveva lasciato Israele con voli verso Istanbul e Roma, mentre gli ultimi 15 italiani hanno ricevuto indicazioni di trasferimento via Atene nelle ore successive. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha rivendicato il lavoro della rete diplomatica e la messa in sicurezza dei rimpatri, dopo giorni in cui la Farnesina aveva chiesto visite consolari e miglioramenti nelle condizioni di detenzione.
Le cronache italiane hanno seguito passo passo i rientri: dai 26 atterrati a Istanbul con un charter internazionale ai 18 giunti nella notte a Fiumicino, fino all’annuncio del volo per gli ultimi 15. La gestione operativa si è intrecciata con le pressioni politiche sull’alleato israeliano e con il confronto interno su come contemperare tutela dei connazionali, legalità internazionale e rapporti diplomatici. Una linea sottile che, inevitabilmente, divide e interroga.
Il racconto di Arturo Scotto e la memoria della traversata
Il deputato Arturo Scotto ha affidato a Rai Radio1 – nel programma “Un giorno da pecora” – un racconto minuzioso: il sequestro del telefono mai restituito, le perquisizioni ripetute, la richiesta di registrare un video “di rassicurazione” rifiutata finché non fosse stato possibile parlare con il vice ambasciatore italiano. In aereo, ha detto, insulti pubblici dopo l’annuncio del comandante sulla presenza di “quattro parlamentari italiani della Flottiglia”, tra fischi e contestazioni. Sono accuse che chiamano in causa compagnia e autorità aeroportuali.
Scotto ha poi annunciato iniziative legali, parlando anche di un esposto imminente sui comportamenti subiti. Nel frattempo, altri parlamentari italiani rientrati hanno riferito di umiliazioni e di essere stati tenuti in ginocchio per ore, mentre l’ambasciatore italiano a Tel Aviv ha escluso maltrattamenti. Due letture opposte che rafforzano l’esigenza di accertamenti terzi, per non lasciare che il dibattito si areni nel confronto tra testimonianze e smentite.
La via dei tribunali: diffide, esposti e prossime mosse
La delegazione legale che segue la missione ha tracciato un percorso in più tappe: una diffida inviata il 24 settembre per sollecitare l’attivazione delle comunicazioni diplomatiche e della protezione consolare; un esposto depositato il 3 ottobre alla Procura di Roma per chiedere di valutare attacchi e sequestri in acque internazionali; un’ulteriore diffida del 6 ottobre rivolta anche alle autorità europee sulle condizioni di detenzione. In parallelo, altri soggetti hanno presentato esposti di segno opposto, segno di una battaglia legale che non si fermerà a breve.
L’agenzia ANSA ha dato conto dell’esposto annunciato dal movimento e della disponibilità dei magistrati a esaminare gli incartamenti. In questa fase, il punto decisivo sarà la qualità delle prove: dai tracciati navali alle comunicazioni radio, dai referti medici alle immagini a bordo, fino agli eventuali riscontri internazionali sugli episodi tunisini. Solo una catena documentale solida potrà sciogliere i nodi tra violazioni lamentate, legalità del blocco navale e condotta delle forze schierate.
Domande lampo, risposte chiare
Quanti sono stati fermati e quanti rimpatriati finora? Le cifre variano tra i comunicati e il tempo di aggiornamento: Israele ha parlato di circa 470-480 persone fermate tra l’1 e il 2 ottobre; nella sola giornata del 6 ottobre i rimpatriati sono stati circa 171, con un totale superiore a 300 espulsi in più tranche. Il numero esatto muta man mano che i voli partono e gli accertamenti consolari si chiudono, rendendo necessaria cautela nella contabilizzazione.
Che cosa è accaduto davvero a Sidi Bou Said l’8 e 9 settembre? Gli attivisti mostrano video e parlano di droni; la Tunisia inizialmente ha negato l’uso di velivoli e poi denunciato un assalto “orchestrato”. Un’inchiesta servirà a chiarire. Intanto, due fonti d’intelligence citate da CBS News sostengono un via libera diretto del premier israeliano a operazioni con droni da sottomarino contro le barche “Family” e “Alma”. Nessun ferito, ma il valore legale di tali azioni resta oggetto di valutazione.
Qual è lo stato delle condizioni di detenzione denunciate dai rilasciati? Testimonianze raccolte da avvocati e media raccontano percosse, privazioni e umiliazioni; Israele respinge tutto come falso, assicurando che i diritti sono stati rispettati. Circa 150 persone restano a Ktziot, e quaranta sarebbero in sciopero della fame. La distanza tra narrative impone verifiche indipendenti, mediche e giuridiche, per dirimere responsabilità e ricostruire fatti e contesti con standard probatori rigorosi.
Un pensiero finale: la rotta che resta da tracciare
Questa vicenda mette a nudo una verità scomoda: nel Mediterraneo di oggi umanità e diritto rischiano di scontrarsi con la stessa violenza delle onde. Non basta scegliere un campo. Servono atti verificabili, responsabilità trasparenti, corridoi che non siano slogan ma procedure, controlli e garanzie. Solo così i prossimi atterraggi – ad Atene o altrove – racconteranno non l’ennesimo ritorno amaro, ma un passo concreto verso la tutela della vita e della verità.
