Domani, a Palazzo della Consulta, approda una decisione che tocca il cuore della lotta alla corruzione: la nuova definizione del traffico di influenze illecite introdotta dalla legge 114/2024 sarà messa alla prova, con una posta in gioco che riguarda limiti, tutele e responsabilità nell’azione pubblica.
Una linea sottile tra mediazione consentita e influenza vietata
L’udienza pubblica del 7 ottobre 2025, relatore Francesco Viganò, chiama la Corte costituzionale a chiarire se lo Stato debba punire solo chi utilizza consapevolmente relazioni reali con un pubblico agente per fini penalmente rilevanti, oppure anche chi millanta contatti, ottiene favori non economici o spinge verso condotte illecite che, però, non integrano reato. È un crinale sottile, dove la definizione di “mediazione” si intreccia con il suo opposto, e in cui il confine tra lobbying lecito e traffico illecito rischia di diventare impalpabile se non fissato con precisione. In gioco non c’è soltanto una norma, ma l’equilibrio tra fiducia nelle istituzioni e garanzia di libertà nei rapporti sociali ed economici.
La questione nasce dall’ordinanza del Tribunale di Roma del 31 gennaio 2025, che ha rimesso alla Consulta i profili di costituzionalità dell’articolo 346-bis del Codice penale, così come riformulato. Il giudice sollecita una verifica per evitare che la riscrittura del reato restringa eccessivamente la punibilità: secondo l’atto, l’esclusione di chi vantava relazioni inesistenti, l’obbligo di provare un’utilità economica (e non qualsiasi utilità) e il vincolo che l’azione mediatizia sia finalizzata a indurre un reato del pubblico agente, potrebbero determinare una zona grigia per forme indirette di corruzione finora presidiate. È su questi punti che i giudici costituzionali sono chiamati a tracciare una rotta chiara, capace di resistere nel tempo e nella prassi.
Il nodo sul tavolo dei giudici: il processo delle mascherine come cornice
Il confronto arriva sullo sfondo dell’inchiesta relativa alla fornitura di mascherine dalla Cina nella prima fase dell’emergenza pandemica. In quel procedimento, una decina di imputati in rito ordinario sono accusati di avere sfruttato relazioni personali per ricavarne vantaggi nelle procedure d’acquisto; da qui il rinvio alla Consulta sulla tenuta dell’attuale 346-bis. Nello stesso filone, l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri è stato assolto in rito abbreviato a fine gennaio 2025 perché l’abuso d’ufficio non è più previsto come reato: il dato, riportato in via primaria da Adnkronos e ricostruito anche negli atti giudiziari, ha reso ancora più urgente stabilire quali condotte restino penalmente rilevanti dopo le riforme. La fotografia processuale, insomma, fa da cornice a un tema più ampio, dove il perimetro della responsabilità penale deve conciliarsi con l’efficienza della spesa pubblica e con la trasparenza dei rapporti.
In udienza sono attesi, per le parti, gli avvocati Giorgio Perroni, Alfonso Celotto, Bruno Andò, Luca Ripoli, e per lo Stato i legali Lorenzo D’Ascia e Massimo Di Benedetto. Il confronto promette di essere serrato: da un lato chi invoca una cornice sanzionatoria capace di intercettare la pressione indebita anche quando mascherata da relazioni vantate, utilità non monetarie o atti solo contrari ai doveri d’ufficio; dall’altro chi difende una tipizzazione più rigorosa, sorretta dall’esigenza di evitare processi sull’ombra del sospetto e di tutelare interlocuzioni lecite tra pubblico e privato.
Cosa ha cambiato la riforma: le tre strettoie decisive
La Riforma Nordio ha riscritto il reato di traffico di influenze su tre assi. Primo: non basta più vantare rapporti, occorre utilizzare intenzionalmente relazioni esistenti con il pubblico agente. Secondo: il vantaggio indebitamente dato o promesso al mediatore deve avere natura economica, lasciando fuori le utilità non patrimoniali. Terzo: la cosiddetta mediazione “onerosa” è limitata ai casi in cui la condotta miri a indurre il pubblico ufficiale a un atto contrario ai doveri costituente reato dal quale derivi un vantaggio indebito. Questa triplice stretta, evidenziata da analisi giuridiche e prime pronunce di legittimità, ha ridisegnato l’architettura dell’articolo 346-bis, selezionando con maggiore nettezza il disvalore penale.
È proprio questa selezione a suscitare le censure del giudice rimettente: secondo l’ordinanza, l’attuale formulazione rischia di espellere dall’area del penalmente rilevante condotte prima intercettate, come la vanteria organizzata, i benefici non economici o la spinta verso atti solo contrari ai doveri ma non costituenti reato, così come i comportamenti che un tempo si sarebbero potuti agganciare all’ormai abrogata figura di abuso d’ufficio. Il timore è che la riduzione del perimetro penale produca, in concreto, un indebolimento degli strumenti contro la corruzione indiretta, proprio laddove operano reti relazionali opache e favori incrociati difficili da monetizzare.
Obblighi internazionali e coerenza dell’ordinamento: il parametro europeo
La Consulta dovrà misurare la riforma con l’articolo 12 della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo (1999), che impegna gli Stati a sanzionare il trading in influence. La domanda è se l’attuale 346-bis soddisfi quel “contenuto minimo” di incriminazione, oppure se, al contrario, l’abbia ridotto a un punto tale da mettere l’Italia in rotta di collisione con gli obblighi internazionali. Gli atti ufficiali di Palazzo della Consulta richiamano espressamente questo parametro, segnalando la necessità di un vaglio che tenga insieme certezza del diritto e credibilità del sistema di prevenzione della corruzione. È un passaggio delicato, in cui il diritto penale interno dialoga con gli impegni assunti in sede europea.
La verifica non è astratta: se la norma venisse giudicata troppo restrittiva, si aprirebbe la strada a una nuova rimodulazione legislativa; se invece fosse confermata, gli interpreti dovranno affinare strumenti e prove per dimostrare l’uso intenzionale di relazioni reali e il corrispettivo economico, elementi ora centrali. In ogni esito, la decisione offrirà un tracciato al quale magistrati, amministrazioni e operatori dovranno attenersi, anche per distinguere con chiarezza la rappresentanza di interessi lecita da ogni torsione indebita delle relazioni con il potere pubblico.
Il banco di prova delle mascherine e l’onda lunga delle riforme
Il procedimento sulle mascherine ha avuto un effetto domino sul quadro: mentre per Domenico Arcuri è intervenuta l’assoluzione in abbreviato perché l’abuso d’ufficio è stato abrogato, per altri imputati in rito ordinario la discussione sulla traffica d’influenze è diventata cruciale. Adnkronos, fonte primaria delle informazioni sul caso, ha ricostruito tempi e numeri della maxi-fornitura, mentre gli atti processuali hanno evidenziato il ruolo delle intermediazioni. È su quel terreno, fatto di decisioni rapide e pressioni emergenziali, che la nuova norma deve dimostrare di saper distinguere tra contatti fisiologici e comportamenti che alterano la correttezza amministrativa.
Non è un dettaglio marginale. La stagione delle riforme ha già visto la Consulta pronunciarsi sulla legittimità dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, respingendo le censure di incostituzionalità a maggio 2025. Quella decisione ha chiuso un fronte, ma ha lasciato aperto il tema di come presidiare il perimetro dell’illecito senza alimentare la cosiddetta paura della firma. Ora, con il 346-bis al vaglio, il sistema si confronta con l’altra metà del cielo: punire l’influenza indebita senza criminalizzare l’interlocuzione legittima tra pubblico e privato.
Le prime letture della Cassazione: intensità della prova e confini applicativi
Nei mesi scorsi alcune pronunce della Corte di cassazione hanno offerto indicazioni preliminari sul nuovo assetto del traffico di influenze. Il filo conduttore che emerge dagli arresti più recenti è l’accento sull’intenzionalità dell’uso della relazione e sulla necessità di provarne la concreta esistenza, prendendo le distanze dalla mera vanteria. Indagini e processi, di conseguenza, dovranno scandagliare la sostanza dei rapporti, la loro effettiva spendibilità presso il pubblico agente e la traccia economica del corrispettivo. È una prova che domanda precisione investigativa, tracciabilità e una narrativa processuale in grado di resistere al controesame.
Queste indicazioni, lette insieme alle analisi dottrinali circolate dopo l’entrata in vigore della legge 114/2024, suggeriscono un diritto vivente in rapido assestamento: meno spazio alle categorie elastiche, più centralità a fatti verificabili e a benefici patrimoniali dimostrabili. Se la Consulta confermerà la cornice, il baricentro si sposterà sul piano probatorio; se invece indicherà correzioni, il legislatore sarà chiamato a intervenire di nuovo, per riallineare la norma agli obblighi internazionali e alle esigenze di effettività della prevenzione.
Cittadini, imprese, amministrazioni: perché la decisione conta davvero
Per i cittadini, sapere che cosa è lecito chiedere e cosa è vietato promettere quando si interloquisce con la Pubblica amministrazione è parte della qualità democratica. Per le imprese, la chiarezza della norma fa la differenza tra advocacy trasparente e rischio penale. Per le amministrazioni, un perimetro definito alleggerisce il timore di sbagliare e rafforza il dovere di documentare scelte e contatti. La decisione di domani, dunque, non è materia per soli addetti ai lavori: parla di regole del gioco, di responsabilità condivise e di un patto di fiducia che ogni democrazia deve coltivare con serietà.
Nella nostra ricostruzione, il riferimento informativo primario resta Adnkronos, affiancato dagli atti ufficiali della Corte costituzionale e da contributi giurisprudenziali della Cassazione. È un patrimonio di fonti che, se letto con sguardo critico e indipendente, restituisce la complessità del quadro: l’Italia sta cercando una bussola in un mare mosso, dove relazioni, interessi e legalità si incrociano di continuo. Il diritto penale, qui, è chiamato a indicare una rotta che sia insieme rigorosa e giusta, capace di non lasciare scampo agli abusi e di non soffocare ciò che, in una democrazia matura, deve restare libero e trasparente.
Uno sguardo che non si accontenta dell’ovvio
Questa pagina giudiziaria interroga il nostro mestiere: raccontare senza urlare, verificare prima di giudicare, pretendere dal diritto chiarezza e dal potere responsabilità. La prova del traffico d’influenze non è una disputa per iniziati, ma una storia di confini: quelli che chiediamo alla legge di tracciare, e quelli che chiediamo a noi stessi di rispettare quando pretendiamo attenzione, tempi rapidi e correttezza dalle istituzioni. Solo così una regola non è una formula, ma un impegno collettivo.
Chiarimenti rapidi per orientarsi
Che cosa decide la Consulta nell’udienza del 7 ottobre 2025?
Valuterà se la riformulazione dell’articolo 346-bis operata dalla legge 114/2024 è compatibile con la Costituzione e con gli obblighi internazionali, in particolare con la Convenzione di Strasburgo. Il perno è stabilire se l’attuale reato copre adeguatamente le condotte di influenza indebita o se, al contrario, ha ristretto troppo l’area del penalmente rilevante, lasciando scoperte forme insidiose di intermediazione irregolare.
Perché si discute di “relazioni esistenti” e non di semplici vanterie?
La riforma richiede l’uso intenzionale di rapporti reali con un pubblico agente. Non basta dichiarare di avere contatti: occorre provarne l’esistenza e la spendibilità. Questa scelta punta a evitare processi basati su suggestioni, ma impone indagini più robuste su scambi, incontri e vantaggi economici. La differenza tra parola e fatto diventa, qui, il discrimine tra lecito e illecito.
Che ruolo ha il requisito dell’“utilità economica”?
Il corrispettivo al mediatore deve avere natura patrimoniale. Restano fuori le utilità non monetizzabili, come favori simbolici o mere cortesie. È un filtro che restringe l’area del reato a ciò che lascia traccia contabile o comunque valutabile in termini economici, ma che solleva anche il dubbio di una possibile sottostima di vantaggi reali ma non immediatamente quantificabili.
Che cosa cambia rispetto al passato sugli atti del pubblico ufficiale?
La mediazione illecita rileva oggi se finalizzata a indurre un atto contrario ai doveri che sia anche reato e produca un vantaggio indebito. Prima era sufficiente un atto contrario ai doveri d’ufficio. La nuova soglia è più alta e selettiva: riduce il rischio di criminalizzare irregolarità minori, ma può lasciare margini a pressioni che non sfociano in un illecito penale del pubblico agente.
Quali sono le fonti di questa ricostruzione?
Le informazioni provengono in via prioritaria da Adnkronos, integrate dagli atti ufficiali della Corte costituzionale e da pronunce della Corte di cassazione successive all’entrata in vigore della legge 114/2024. L’obiettivo è offrire un quadro accurato e aggiornato, fedele ai documenti e alle decisioni, senza aggiungere elementi non verificabili o speculazioni.
