Marco Follini richiama la politica a una verità semplice: i partiti respirano quando aprono il confronto, anche aspro, e appassiscono quando fingono armonie di facciata. Non è un invito alla rissa: è una richiesta di sincerità, soprattutto quando i numeri scricchiolano e i conti non tornano agli occhi degli elettori.
La forza del confronto, non delle scenografie
In tempi in cui il “galateo” consiglia di tacere i dissidi e sventolare slogan di unità per non turbare la vigilia di ogni imminente appuntamento elettorale, la riflessione di Follini sposta il baricentro: per sentirsi vivi, i partiti hanno bisogno di misurarsi davvero, con discussioni “franche e cordiali”, perfino con litigi costruttivi. Stringere i ranghi a prescindere può apparire prudente, ma finisce per svigorire la politica. Se la dialettica scompare, resta soltanto il proscenio, mentre dietro le quinte cresce quel malessere che prima o poi presenta il conto, nelle urne e nella credibilità.
La forma educata del silenzio non è una virtù se diventa alibi. Rimandare il chiarimento a dopo, in nome dell’ennesima scadenza elettorale, significa ingannare se stessi. Il risultato è una recita: si celebrano parole d’ordine rassicuranti, si predica l’unità, si evocano destini comuni, e intanto si rinuncia a verificare la tenuta di alleanze, idee, leadership. L’assenza di discussione pubblica non risolve nulla: sospinge all’interno ciò che dovrebbe essere affrontato alla luce del sole, offuscando la qualità della decisione e impoverendo la fiducia reciproca.
I segnali ignorati: quando i conti non tornano
Ci sono casi concreti che questa analisi richiama. La Lega incassa cali su cali, le cifre tornano di rado con il segno più, eppure difficilmente si vede una messa in discussione esplicita, una correzione enunciata con limpidezza. Serrare i ranghi è diventato lo schema ricorrente, ma non il rimedio. Se il dibattito rimane sottotraccia, la politica non apprende: si limita a contenere il danno, accettando la logica del “poi” che rinvia il problema e lo ingigantisce. La vitalità, invece, nasce proprio dal dichiarare ciò che non funziona, e dal farlo senza infingimenti.
Anche il Partito democratico, dopo un risultato più del previsto nelle Marche, ha scelto di non mettere realmente in questione scelte e percorsi: la maniera in cui la leadership si è mossa, il disegno delle alleanze, l’agenda programmatica. Quella che sembra pacatezza diventa talvolta inerzia. Eppure la politica vive di messa a fuoco, di revisioni dolorose se necessarie, di coraggio nel nominare gli errori. Senza questo passaggio, i numeri negativi restano cronaca, non diventano esperienza collettiva capace di indirizzare un rilancio.
La dialettica nascosta e le sue ombre
Il motore dei partiti ha sempre due cilindri: uno pubblico e uno nascosto. Nulla di male, in sé. Ma quando la dialettica si consuma soltanto dietro porte chiuse, la discrezione smette di essere eleganza e diventa maschera. Proteggere la discussione dalla pubblica opinione non significa curarla: spesso vuol dire schivarla. Dire le cose senza dirle, rinviare, edulcorare: si perdono così le occasioni per mettere in campo visioni alternative e far crescere, anche attraverso il dissenso, l’autorevolezza di una posizione.
Quando si finge l’armonia perpetua, si finisce per spazzare la polvere dei contrasti sotto il tappeto della retorica. È una retorica fragile, che tradisce la mancanza di fiducia in se stessi, nei propri colleghi e, soprattutto, nei propri elettori. La politica che simula concordia offre un’immagine rassicurante ma svuotata. E quello scarto si vede: prima si insinua come distanza, poi si allarga in diffidenza, infine erode il patto tra rappresentanti e rappresentati, proprio là dove servirebbe la massima trasparenza.
Gli elettori tra retorica e realtà
Il prezzo più alto lo paga chi osserva e vota. Agli elettori si chiede di credere che intoppi, scontri e stop siano fumo dei media o capricci dei social. Nel frattempo, sono stati espropriati della possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti, e si ritrovano a decifrare un racconto spezzato: da una parte l’elogio dell’unità totale, dall’altra la contesa confinata nei retroscena. Trattati come bambini, informati a metà, chiamati a fidarsi senza essere messi davvero al corrente: così la disaffezione cresce e la partecipazione diventa un’abitudine sempre più fragile.
È questo squilibrio che nutre la sfiducia: un fronte ufficiale scintillante, fatto di formule e fotografie, e un lato in ombra dove si accumulano dissensi non detti. La distanza tra sistema politico ed elettorato nasce qui, nel non detto che si sedimenta. Riaprire la dialettica, portarla in superficie, non è un vezzo ma un’esigenza civile. La verità, per quanto scomoda, tiene insieme più di una narrazione perfetta. E il conflitto regolato, praticato alla luce del sole, ricuce più di qualsiasi appello rituale all’unità.
Una chiamata alla chiarezza, oggi
Alla fine, l’invito è netto: meglio qualche litigio autentico che celebrazioni incolonnate a beneficio di nessuno. I partiti respirano quando discutono e crescono quando sanno nominare le differenze, misurandole in pubblico. Solo così gli inciampi diventano apprendimento e le sconfitte, da stigma, si trasformano in risorse per ripartire. L’unità vera non si proclama: si costruisce attraverso il confronto, anche ruvido, che mette alla prova e legittima le scelte.
Come Sbircia la Notizia Magazine rilanciamo e rielaboriamo queste considerazioni, firmate da Marco Follini nella sua rubrica di analisi politica, veicolata dalla nostra agenzia di riferimento Adnkronos. Lo facciamo perché in gioco non è l’estetica del consenso, ma la sostanza del patto democratico: chi guida deve parlare chiaro, chi vota deve essere messo nelle condizioni di capire e scegliere. Solo una dialettica sincera può rammendare la distanza che oggi separa la politica dalla sua comunità.
Domande lampo per orientarsi nel merito
Perché litigare può far bene ai partiti? Perché il dissenso esplicito, regolato e “franco e cordiale”, trasforma gli errori in apprendimento condiviso, costringe a verificare alleanze, programmi e leadership, e restituisce autenticità all’azione politica. Senza questo passaggio, l’unità diventa una scenografia, i problemi restano irrisolti e l’elettore percepisce la distanza tra parole e realtà, alimentando diffidenza e disaffezione verso l’intero sistema.
Qual è il rischio dell’unità di facciata? La finta armonia spinge i conflitti sotto traccia, li rende opachi e ingestibili, e genera una retorica che finisce per tradire sfiducia reciproca e scarsa stima per gli elettori. Così si spezza il racconto pubblico: da un lato il coro ufficiale, dall’altro i retroscena. Questo doppio binario consuma credibilità, indebolisce le scelte e allarga la frattura tra cittadini e partiti.
Quali esempi richiamano il problema? Il calo reiterato dei consensi alla Lega, che raramente si traduce in autocritica pubblica, e la sconfitta del Partito democratico nelle Marche, non accompagnata da una vera revisione di leadership, alleanze e agenda. In entrambi i casi, l’assenza di confronto trasparente diventa occasione mancata per correggere la rotta e ritrovare credibilità agli occhi degli elettori.
Che cosa chiedere allora alla politica? Di riportare il confronto alla luce del sole: discutere davvero, anche a costo di litigare quando serve, invece di rifugiarsi in celebrazioni rituali. Solo una dialettica autentica può colmare la distanza con gli elettori, restituire senso alla rappresentanza e trasformare una crisi di fiducia in un’opportunità di crescita condivisa e consapevole.
Il nostro punto: il coraggio del dissenso come atto di rispetto
Da cronisti abituati a guardare dentro le pieghe della politica, ci è chiaro che il rispetto per gli elettori passa dal coraggio del dissenso. Dire ciò che non funziona, e farlo pubblicamente, non indebolisce: legittima. La comunità democratica non pretende infallibilità, pretende verità. Se i partiti accetteranno l’attrito del confronto, non venderanno imperfezioni: offriranno fiducia. È questo, in fondo, il senso più concreto della lezione che rilanciamo dalle analisi di Marco Follini diffuse da Adnkronos: una politica viva non teme la discussione, la pratica.
