Quando un intellettuale abituato alle luci dei riflettori apre un varco sulla propria fragilità, la sua voce rimbalza con un’eco inattesa. Così Vittorio Sgarbi, tra le mura di un’intervista, narra lo scivolare nella depressione e il cammino di risalita, storia che Sbircia la Notizia Magazine ha verificato con Adnkronos prima di condividerla con i lettori.
Una caduta silenziosa e improvvisa
Il critico d’arte racconta che l’oscurità si è fatta sentire all’indomani dell’addio all’incarico di sottosegretario alla Cultura, momento che lui definisce la radice di una «ingiustizia assoluta». Quel giorno, spiega, «i desideri hanno smesso di bussare». La sensazione di essere stato compreso da pochi si è trasformata in un peso insopportabile, capace di corrodere la voglia di alzarsi dal letto e di scambiare parole con chiunque. La scena pubblica, fino a poco prima teatro quotidiano, è diventata improvvisamente distante, silenziosa come una piazza svuotata.
Dalla conclusione dell’esperienza di governo arrivò una stanchezza che nemmeno le risse verbali, suo pane quotidiano, riuscivano a coprire. Febbraio lo sorprese riverso in un letto del Policlinico Gemelli, mentre la compagna Sabrina seguiva distrattamente il Festival di Sanremo nella stessa stanza. Lui non trovava la forza di alzare lo sguardo verso lo schermo; lo sguardo scivolava lungo muri candidi, come se quei muri potessero fornirgli una spiegazione. Là, lontano dai palchi, iniziava il confronto più intimo interno e duro.
Il corpo che cede e la mente che rifiuta il cibo
Il crollo fisico si è materializzato nello specchio: la bilancia ha segnato appena 59 chilogrammi, misura impensabile per chi ha sempre espresso vitalità traboccante. «Anche solo vedere il cibo mi repelleva», ammette oggi il professore. La depressione ha indossato i panni di un rifiuto totale del nutrimento, al punto che i medici hanno parlato di concreto pericolo di vita. Sgarbi riconosce che quel confine era vicino, ma dice di non avere mai provato paura, forse perché l’apatia annulla ogni emozione.
Nei giorni più bui, la pittura è rimasta l’unica finestra spalancata. Sgainò la memoria e ripescò Caravaggio, Artemisia Gentileschi e, al di sopra di tutti, Piero della Francesca. Quelle tele lo riconducevano a un’idea di bellezza che nasce dalla sofferenza, un’origine che sentiva specchiarsi nella propria condizione. L’altezza morale di quei maestri gli restituiva un filo d’ossigeno, quasi a ricordargli che dal dolore può sprigionarsi luce, benché fioca. Con quel filo, ha iniziato a legarsi nuovamente al mondo circostante lentamente.
L’abbraccio di Sabrina e l’annuncio delle nozze
Se la pittura nutriva l’anima, l’affetto di Sabrina Colle ha vegliato sul corpo. Lei non si è allontanata nemmeno per qualche ora: ha scelto di dormire su una poltrona d’ospedale, di alzarsi con lui, di convincerlo a un cucchiaio di minestra quando tutto sembrava inutile. Quel legame, che dura da anni, si è trasformato in proposta: le nozze arriveranno, assicura Sgarbi, «al più presto» e avranno come cornice la chiesa veneziana della Madonna dell’Orto, magnifica per i teleri di Tintoretto e un prezioso Cima da Conegliano.
Accanto alla compagna si sono stretti in molti, a cominciare dalla sorella Elisabetta, presenza discreta ma costante. Poi gli amici di sempre: Luigi Manconi, Massimo Cacciari, Alain Elkann, Antonio Gnoli e Geminello Alvi. Il citofono dell’ospedale ha visto sfilare anche esponenti di spicco della politica: Ignazio La Russa, Lorenzo Fontana, Francesco Storace e il ministro Giuli. Da sinistra è arrivato quasi di soppiatto Dario Franceschini, in un alba di discrezione rara. Tutti, in modi diversi, gli hanno ricordato che il confronto con il dolore non è un processo solitario.
La frattura con la figlia e la tutela del patrimonio
Nello stesso quadro, però, si è innestata una nota stonata: la richiesta di interdizione presentata dalla figlia Evelina. «Incomprensibile», dice il padre, con l’ombra di un dispiacere che traspare più dalle pause che dalle parole. Non gli è chiaro, spiega, quale obiettivo la ragazza insegua. Si interroga se la preoccupazione riguardi il patrimonio, ma ribadisce che le circa cinquecento opere raccolte nel tempo non appartengono più a lui in senso stretto, essendo state conferite anni fa alla Fondazione Cavallini-Sgarbi irrevocabilmente.
La collezione, custodita dalla Fondazione Cavallini-Sgarbi, è sottoposta a un vincolo che ne impedisce l’alienazione se non in blocco, eventualità che il critico giudica «poco praticabile». In questo modo, dice, i quadri restano legati all’Italia e nessuno potrà lasciarli partire verso altri mercati. Con quella scelta di spossessamento, compiuta tempo addietro, Sgarbi ricorda di aver voluto mettere al riparo la propria eredità culturale, separandola dalle tempeste familiari, pur sapendo che i conflitti affettivi difficilmente obbediscono alla logica dei numeri legalistici.
Ritrovare forza e speranza
Oggi il professore dice di essersi rimesso in piedi: la bilancia segna 71 chili, il passo è tornato deciso, e soprattutto la mente ha ricominciato ad assaporare progetti. «Sto cercando di rafforzarmi e di riaprirmi agli altri», confessa. Non più riccio chiuso, ma persona che ricomincia. Il brano di Witold Gombrowicz letto in ospedale – «Se qualcuno di voi, Ferdydurkisti, risiede ancora tra i vivi, che non perda la speranza» – gli rimbomba ancora dentro, monito e promessa insieme quotidiana.
Ed è proprio sul terreno della speranza che Sbircia la Notizia Magazine, come di consueto dopo un’accurata verifica condotta in collaborazione con Adnkronos, sceglie di fermarsi per un momento. La testimonianza di Sgarbi non è soltanto la cronaca di un celebre personaggio, ma un riflesso di ciò che può accadere a chiunque, quando la fiducia nelle proprie scelte viene meno. Raccontarla significa restituire al dibattito pubblico un tassello in cui vulnerabilità e rinascita dialogano senza vergogna, invitando a considerare la salute mentale un capitolo centrale della vita collettiva.
Domande in un lampo
Quando Vittorio Sgarbi ha realizzato di trovarsi in una situazione di rischio per la sua stessa vita? La consapevolezza è arrivata, racconta, davanti a una bilancia che segnava soli 59 chilogrammi, cifra drammaticamente distante dal suo peso abituale. Il corpo, spossato dal rifiuto del cibo, era divenuto un campanello d’allarme più eloquente di qualsiasi parola. In ospedale i medici gli hanno spiegato che la soglia tra la debolezza e il collasso era sottile; in quel momento Sgarbi ha percepito l’urgenza di invertire la rotta, pur senza dichiararsi spaventato.
Che importanza hanno rivestito l’arte e i maestri del passato nel percorso di rinascita del critico? Nel pieno dell’apatia, Sgarbi ha trovato un’ancora in Caravaggio, Artemisia Gentileschi e, soprattutto, Piero della Francesca. Le loro opere, dichiara, testimoniano come la sofferenza possa generare una grandezza capace di sfidare i secoli. Rivedere quei capolavori, anche soltanto nella memoria, gli ha ricordato che la bellezza resiste alla disperazione e offre una lezione di equilibrio. Da quell’incontro quotidiano con la pittura ha tratto l’energia per riaccendere curiosità e progettualità.
Per quale motivo la collezione di oltre cinquecento quadri non può essere dispersa sul mercato? Sgarbi spiega che anni fa ha trasferito l’intero patrimonio artistico alla Fondazione Cavallini-Sgarbi, sottoponendolo a un vincolo che consente l’alienazione soltanto in blocco. Una condizione, osserva, difficilmente praticabile date le dimensioni e il valore culturale dell’insieme. Ciò significa che ogni singola tela è oggi parte di un corpus inscindibile, destinato a restare in Italia. In questo modo il fondatore ritiene di avere tutelato il bene collettivo, sottraendolo a speculazioni e a dinamiche ereditarie.
Uno sguardo oltre l’oscurità
Le vicende di Vittorio Sgarbi suggeriscono che la fragilità non risparmia neppure chi, per temperamento e professione, sembra scolpito in una roccia di certezze. Raccontarle, per noi di Sbircia la Notizia Magazine, significa ribadire che dietro ogni personalità pubblica pulsa un cuore esposto agli stessi urti che sfiorano ciascuno di noi. Se la cura arriva dall’arte, dall’affetto e da un patrimonio comune di solidarietà, vale la pena ricordarlo ad alta voce, perché nella condivisione del dolore talvolta si trova l’unica autentica possibilità di rinascere.
