Il nuovo doppio ellepì di Gio Evan arriva come un invito a guardare oltre la superficie e a recuperare uno sguardo autentico sul mondo, spingendo chi ascolta a lasciarsi attraversare da poesia, musica e pensiero critico in un unico flusso narrativo.
Un frutto come maestro
Nel suo racconto, l’artista pugliese evoca l’immagine del mango per denunciare la proliferazione di sedicenti maestri travestiti da agnelli, pronti a imporsi con corsi spirituali esosi quanto effimeri. Un parallelismo potente che, pur partendo da toni lievi, svela la necessità di riconoscere la vera guida nella semplicità della natura piuttosto che nella spettacolarizzazione della saggezza. «Stiamo vivendo l’epoca dei lupi mascherati», riflette, ricordando come anche le Scritture mettessero in guardia dal pericolo di chi millanta santità. In un contesto tanto confuso, il mango diventa simbolo di genuinità e, al tempo stesso, di resistenza culturale, offrendo una lezione silenziosa a chi sappia soffermarsi ad ascoltare.
Il frutto tropicale, infatti, si comporta con un’intelligenza che rasenta la memoria collettiva: fornisce ombra, trattiene umidità e persino decide di spogliarsi delle foglie per proteggere le piante vicine. «Mi sono chiesto se non ci convenga diventare un po’ tutti dei manghi», spiega Evan, ribaltando con ironia la consapevolezza che l’essere umano, spesso, fallisce proprio dove la natura riesce a instaurare connessioni efficaci. Questa riflessione offre la bussola tematica dell’intero progetto discografico, ricordandoci come la protezione reciproca e la condivisione delle risorse restino strategie vincenti per qualsiasi comunità, artistica o meno.
La libertà sonora di un doppio ellepì narrativo
‘L’eleganza del mango’ non è un album ordinario, ma un romanzo in musica che alterna ballate intime a passaggi più luminosi, orchestrando un percorso esperienziale che non teme di risultare scomodo. La lavorazione, condivisa con Tommaso Sgarbi e Bruce Labbruzzo, ha generato quella che lo stesso autore definisce una sinergia alchemica, capace di garantire ai brani una libertà formale rara nell’attuale panorama pop. Ogni traccia si incastra come tessera autonoma all’interno di un mosaico sonoro che mette al centro l’urgenza di farsi ascoltare senza preconcetti, spingendo l’ascoltatore a partecipare, più che a fruire passivamente.
Fra i passaggi più emblematici spicca ‘Sarai giudicata’, brano in cui Evan gioca con l’idea del giudizio, concedendo a chiunque la patente di critico per poi scegliere soltanto chi, in quel giudizio, sa astenersi. Un esercizio critico che trasforma il veto in spunto narrativo e fa emergere la forza disarmante dell’autoironia. Prosegue su questa linea anche ‘Ricetta di pace’, vero e proprio esperimento culinario-politico che prescrive ottocento grammi di empatia per commensale e abbondanti dosi di ascolto, a sottolineare l’urgenza di rinegoziare il peso specifico delle emozioni nelle relazioni sociali e artistiche.
Empatia in ottocento grammi
La visione di Gio Evan si radica in un percorso spirituale internazionale che lo ha portato a incontrare culture e tradizioni distanti, maturando due insegnamenti cruciali. Il primo demolisce la retorica del «credi solo in te stesso»: l’artista ricorda come dentro ciascuno di noi convivano voci plurime e intelligenze che mutano costantemente, rendendo impossibile fissare l’identità in un’unica cornice. Il secondo mette sotto accusa la felicità come feticcio occidentale: un prodotto promesso, comprato o venduto, lontano dalla ricerca di autenticità che per Evan coincide con il messaggio evangelico, cioè l’invito a essere veri, non necessariamente felici.
Sul piano umano, questa filosofia trova conferma nel ricordo ancora vivo di sua madre, scomparsa nel 2024 dopo un decennio di malattia. Lungo quel percorso di congedo lento, racconta, ha potuto esercitarsi nell’ascolto profondo e nella capacità di stare accanto senza riserve, scoprendo come il lutto possa trasformarsi in collante familiare. «Le madri hanno la forza di unire persino oltre la vita», osserva, rivelando la radice emotiva che impregna il disco. Il lutto, dunque, non viene narrato come tragedia conclamata, ma come spazio interiore in cui l’artista ha potuto osservare, con occhi aperti, la potenza rigenerativa dell’affetto.
La presenza della madre nell’eleganza del mango
Ogni verso del nuovo album, a ben guardare, risuona di una tenerezza che sgorga proprio da quella perdita, una tenerezza colta nella cura delle piccole cose che sua madre incarnava. L’artista ammette di aver avuto il privilegio di elaborare il distacco in tempi dilatati, sedendosi accanto a lei, lasciando che il silenzio colmasse ciò che le parole non riuscivano più a dire. Da questa dimensione sospesa nasce la qualità contemplativa delle ballate più intime, dove la memoria non si limita a rimpiangere ma diventa trampolino di evoluzione narrativa e personale.
Mentre la scomparsa della figura materna marchia il disco di una patina emotiva intensa, Evan sottolinea come la musica, unita alla poesia, si trasformi in rito di passaggio capace di riconnetterlo con un pubblico pronto a condividere fragilità simili. È qui che il mango, simbolo di protezione e di ciclicità, ricalca la modalità con cui l’autore attraversa il dolore: accogliendolo, custodendolo e, infine, offrendolo in dono sotto forma di canzone. Una scelta poetica che punta a convertire la perdita in carburante creativo, dimostrando che la vulnerabilità non è un punto di rottura, bensì una porta spalancata verso l’empatia collettiva.
L’Affine del Mondo e altri palchi
Parallelamente all’uscita del disco, Gio Evan si prepara a varcare i sipari con ‘L’Affine del Mondo’, tour teatrale che debutta il 28 ottobre al Teatro San Domenico di Crema, con tappe già esaurite a Torino e Bologna. Lo spettacolo mescola poesia, fisica quantistica, stand-up e musica, in un formato che l’artista definisce di «buffoneria sacra». La definizione riflette la sua paura di essere preso troppo sul serio e rivendica la libertà di affrontare temi impegnativi senza imbalsamare l’energia del palcoscenico. Il risultato è uno storytelling multidisciplinare che chiama il pubblico all’interazione costante, ribaltando la dinamica classica dello spettatore passivo.
Il calendario prosegue in estate con due appuntamenti all’aperto: il 2 luglio al Sequoia Musica Park di Bologna e il 5 luglio al Flowers Festival di Collegno. Occasioni pensate per riproporre l’album in chiave estiva, ma anche per valorizzare l’oralità tipica dei reading dell’autore. Tra versi e ritornelli, Evan rivendica la licenza di salire sui banchi, proprio come in una celebre scena dell’‘Attimo Fuggente’, perché la poesia – insiste – deve rimanere un gioco serissimo, capace di far respirare le idee anziché inchiodarle alla cattedra dell’interpretazione univoca.
Silenzio, città e campagna
Nel tessuto frenetico degli impegni promozionali, l’artista confessa di custodire un rifugio in campagna per rigenerarsi lontano dal rumore urbano. Roma, ammette, lo affascina e insieme lo prosciuga; per questo, appena possibile, fa ritorno alla quiete rurale dove prende forma la sua ritualità quotidiana. «Quando la città diventa eccessiva, canto molti “nam myoho renge kyo”», scherza, svelando come la pratica del mantra gli offra un presidio di centratura. In quell’angolo di verde, le pause di silenzio acquistano spessore e la scrittura si rinnova, libera dalla pressione dei tempi mediatici.
Per Evan, infatti, l’affinità si misura proprio nello spazio vuoto tra due parole: un varco fragile ma rivelatore che, a suo dire, mostra chi siamo davvero. Le parole, ricorda, si alterano e si rubano, mentre il silenzio resta un testimone incontestabile. «L’essenziale è visibile agli occhi, basta aprirli», ribadisce, ribaltando la nota massima di Antoine de Saint-Exupéry per dimostrare che, talvolta, occorre disinnescare il paradosso: non è il cuore, ma lo sguardo lucido a restituirci la verità, purché non si tema la nudità dei non-detti.
Domande in un lampo
Che cosa rende ‘L’eleganza del mango’ diverso dai tuoi lavori precedenti?
La complicità assoluta con i miei collaboratori e la scelta di non limare nessuna scomodità: ho lasciato che ogni brano urlasse o sussurrasse come voleva.
Quale traccia consiglieresti a chi non ti ha mai ascoltato?
‘Sarai giudicata’, perché mostra come gioco con i pregiudizi e invita a sospendere ogni etichetta, compresa quella che potremmo appiccicare a me.
Perché definisci la felicità una “truffa occidentale”?
Perché ci vendono l’idea che sia uno stato permanente e monetizzabile, mentre l’autenticità è un processo vitale, fatto di picchi e fenditure.
Sguardo di Sbircia la Notizia Magazine
Come redazione, abbiamo seguito la genesi di ‘L’eleganza del mango’ fianco a fianco con l’agenzia stampa Adnkronos, verificando ogni dettaglio con cura e riportando fedelmente le parole dell’autore. La traiettoria di Gio Evan dimostra che la poesia, per funzionare, deve restare un atto di coraggio condiviso: discendere nei piani bassi dell’emozione, per poi risalire e offrirsi al pubblico con la stessa, contagiosa spontaneità di un frutto che nutre chi gli sta accanto.
