Basterebbe leggere il titolo per capire che i Capabrò non hanno alcuna intenzione di smussare gli angoli: “Lavorare fa schifo” irrompe nel panorama musicale di settembre come manifesto rock, ironico e feroce, di un malessere condiviso. In poco più di tre minuti, il trio marchigiano solleva un grido che appartiene a un’intera generazione.
Una provocazione che diventa coro collettivo
Il nuovo singolo nasce come un gesto di rottura consapevole: i Capabrò scelgono termini spigolosi, chitarre abrasivamente distorte e un ritornello urlato per svelare la violenza silenziosa che accompagna il lavoro odierno. La band dedica il brano a chi, ogni mattina, infilando la chiave nella serratura, sente di entrare in un luogo ostile: a chi trascorre ore in ufficio, fabbrica o negozio portandosi a casa frustrazione e stanchezza che non si lavano via. Il pezzo diventa così un abbraccio amaro e uno sfogo condiviso, più confessionale che retorico.
La provocazione, lungi dall’essere mero slogan, si nutre di una consapevolezza generazionale: quella di chi è cresciuto sentendosi ripetere che il lavoro “nobilita”, salvo poi trovarsi intrappolato in contratti precari e turni infiniti. Nelle strofe, la band fa affiorare la sensazione di essere un ingranaggio intercambiabile e, proprio mentre la batteria incalza, l’amarezza lascia spazio a una rabbia liberatoria. Non si invoca la fuga, bensì la presa di coscienza collettiva: riconoscere il disagio è il primo passo per scardinare un sistema che sembra nutrirsi di vite esauste.
Dal palco alla piazza: il premio che riconosce la denuncia
La portata di questo brano non è sfuggita alla giuria dell’undicesima edizione del Premio “La Musica è Lavoro”, riconoscimento che ogni anno rende omaggio a canzoni capaci di illuminare le trasformazioni del lavoro. Con “Lavorare fa schifo” i Capabrò si sono aggiudicati il premio, che verrà consegnato sul palco di Piazza del Popolo a Faenza durante il MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti. Un trionfo che certifica quanto la loro denuncia, per quanto ruvida, riesca a parlare a un pubblico molto più ampio del solo circuito rock.
La statuetta porta con sé il nome di Luigi Miserocchi, sindacalista faentino la cui memoria continua a alimentare il dialogo tra arte e diritti. Ricevere tale riconoscimento significa inscrivere la propria musica in un filone di impegno civile che, dal folk alle sonorità più estreme, attraversa la storia italiana. In piazza, davanti a spettatori e addetti ai lavori, la canzone diventerà carne viva; non mero file digitale, ma esperienza condivisa che ribadisce la possibilità di trasformare l’indignazione individuale in consapevolezza collettiva.
Il suono ruvido di un trio marchigiano
Nati e cresciuti nelle Marche, i Capabrò portano in dote un’energia che scavalca etichette e definizioni. Il loro è un “cantautorock” che coniuga impulso teatrale e chitarre ruvide, evocando un palco dove si ride, si salta e, a volte, ci si ferisce. Ogni nota è predisposta a sporcarsi di vita vissuta, ogni pausa a contenere un lampo di sarcasmo. Il pubblico non è spettatore passivo: viene trascinato dentro un rito collettivo in cui la fatica di vivere diventa materia di spettacolo.
Questa attitudine spicca in “Lavorare fa schifo”, brano alimentato da un giro di basso granitico e da una sezione ritmica incalzante che sostiene un cantato al confine tra spoken word e grido liberatorio. Le chitarre, volutamente grezze, frammentano il silenzio in scaglie taglienti, mentre l’interpretazione vocale traduce in suono quell’angoscia da timbro che perfora le giornate di tanti. La canzone, più che riprodotta, andrebbe vissuta, perché nasce dal sudore del palco e solo lì trova la sua forma definitiva.
Dall’home tour ai club: un percorso in evoluzione
Il percorso dei Capabrò non si è mai sviluppato lungo strade ovvie. A inizio 2025 hanno pubblicato “Educazione Cinica” per l’etichetta Astralmusic e, invece di affidarsi immediatamente ai palchi canonici, hanno varcato le soglie di dieci salotti italiani con un home tour intimo e sorprendente. Quelle serate, vissute a pochi centimetri dal pubblico, hanno consolidato un legame viscerale: scavalcando la quarta parete, la band ha trasformato divani e lampade domestiche in scenografia di un rock urticante ma familiare.
Al termine di quell’esperimento casalingo, il trio ha calcato i palchi dei principali club della penisola, portando con sé brani come “Camilla”, “Miliardi” e “L’amore è solo una sborrata”, pezzi che alternano ironia graffiante e disincanto lucido. La loro scaletta si è trasformata in un set teatrale, dove monologhi improvvisati si innestano negli stacchi musicali e amplificano l’urgenza delle parole. Ogni sera si è rivelata una tappa di un’educazione sentimentale collettiva, con il pubblico chiamato a cantare, ridere, riflettere e, se necessario, urlare.
Verso il tour autunnale: dove risuonerà la rabbia
A pochi giorni dal lancio di “Lavorare fa schifo”, i Capabrò annunciano un nuovo viaggio autunnale-invernale che toccherà club, festival e centri sociali lungo la penisola. Chi ha assistito a un loro concerto sa che non si tratta di semplici date promozionali: il tour è pensato come un percorso in crescendo, un filo rosso che collega luoghi diversi con un’unica domanda bruciante — cosa resta dell’individuo quando il lavoro gli divora la giornata? Ogni palco si trasformerà in cassa di risonanza per un urlo corale, con il pubblico chiamato a fare proprie parole nate dall’attrito fra speranza e frustrazione, affinché nessuno si senta più solo dentro quell’ingranaggio che continua a girare.
La band, consapevole del potere dei cori generazionali, ha costruito il nuovo pezzo in modo che ogni refrain possa essere gridato all’unisono, quasi fosse un inno da stadio capace di scardinare il tabù del malessere lavorativo. Non è soltanto intrattenimento; è un rito collettivo di riconoscimento reciproco, dove si impara a chiamare per nome la stanchezza e, così facendo, si incrina la retorica del “sorridi e vai avanti”. Se il rock resiste è perché sa ancora offrire spazi di libertà incontrollata.
