Dalle luci della laguna all’atteso debutto in sala, l’ultimo lavoro di Bonifacio Angius trascina lo spettatore in un intreccio di memoria e rabbia, intimo e universale, pronto a interrogare la nostra idea di famiglia e di violenza.
L’eco di Venezia e la corsa verso le sale
La prima scossa è arrivata durante le Notti Veneziane all’interno delle Giornate degli Autori dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, quando l’opera è stata applaudita e si è aggiudicata il prestigioso Premio Lizzani. In quell’istante, la traiettoria del film ha preso una direzione imprevista: da progetto coltivato nel silenzio creativo sardo a caso cinematografico capace di catturare l’attenzione internazionale. Critici e addetti ai lavori hanno colto l’originalità di uno sguardo che mette in corto circuito comicità aspra, crudele delicatezza e un realismo che non teme di mostrare le crepe più profonde dei legami familiari.
La strada verso il pubblico ora continua con l’uscita fissata per il 16 ottobre, curata da Obiettivo Cinema in sinergia con Monello Film. La scelta di una distribuzione mirata testimonia la volontà di portare in sala una pellicola che richiede attenzione e tempo per sedimentare, lontano dall’idea di consumo frettoloso. Confiteor – Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione arriva quindi sugli schermi forte dell’eco festivaliera, ma pronto a costruire una relazione diversa, più intima, con spettatori chiamati non solo a ridere o commuoversi, bensì a riconoscersi in quelle ombre che attraversano i personaggi.
Un autore in stato di grazia
Firmato, fotografato, interpretato e prodotto da Bonifacio Angius, il film rappresenta il quarto capitolo di un percorso iniziato con Perfidia, consolidato con Ovunque Proteggimi e spinto oltre con I giganti. Il cineasta cagliaritano assume su di sé ogni ruolo cruciale, scegliendo di contaminare generi e registri per restituire quel senso di precarietà emotiva che abita la nostra quotidianità. In questo lavoro, la sua macchina da presa diventa quasi un prolungamento della pelle, capace di registrare tremori, sorrisi fuori posto, scarti improvvisi di rabbia che ribaltano la scena in pochi fotogrammi.
L’urgenza creativa di Angius nasce da sollecitazioni autobiografiche che trovano forma in un racconto dove il confine tra esperienza personale e finzione narrativa resta volutamente poroso. La sceneggiatura, cesellata con precisione artigianale, alterna fendenti ironici a momenti di struggente vulnerabilità, lasciando che il pubblico si muova senza bussola in un territorio emotivo ambivalente. Ogni snodo drammaturgico punta a mostrare come la violenza, dichiarata o latente, possa emergere con la stessa naturalezza di un gesto quotidiano, rendendo impossibile distinguere ciò che ci è estraneo da ciò che ci appartiene.
Una produzione corale che parla sardo al mondo
Se la visione è figlia di un autore, la realizzazione è opera di un’alleanza produttiva che unisce sensibilità e territori diversi. Monello Films, guidata dallo stesso Angius, condivide la cabina di regia industriale con Mosaicon Film, rappresentata da Andrea Leone e Antonella Di Martino, e con la polacca Agresywna Banda di Alessandro e Marta Leone. Un mosaico di competenze che, pur partendo dalla Sardegna, abbraccia una dimensione transnazionale, confermando come la forza di certe storie locali possa risuonare ben oltre i confini dell’isola.
Il sostegno concreto di Regione Autonoma della Sardegna e Fondazione Sardegna Film Commission, affiancato dal contributo di Los Siglos De Los Siglos e Uci, ha permesso di radicare il set in un contesto che ricorda costantemente l’origine dell’autore, pur parlando con accento universale. Non si tratta di un’operazione da cartolina: luoghi, volti e dialetti vengono messi a servizio di un’indagine sull’umanità che prescinde da coordinate geografiche. La Sardegna diventa così punto di partenza, non di arrivo, per una riflessione che riguarda tutti noi.
Famiglia, ricordi e una comicità che graffia
Il cuore narrativo pulsa intorno al personaggio di Gianmaria, testimone e vittima di una convivenza familiare totalizzante: cugini, zii, nonni, tutti raccolti nello stesso palazzo, legati da abitudini condivise perfino nella spesa quotidiana. Il microcosmo domestico assume i contorni di una piccola città verticale, dove ogni piano ospita una storia diversa: al garage Zio Gianni fantastica su una Ferrari, al primo si agitano Zia Anna e Zio Nicola, al secondo impera Zio Raffaele, taccagno e autoritario, con i figli Filippo, Luca e la giovane Silvietta che fa battere il cuore del protagonista.
Il fragile equilibrio si infrange quando il padre di Gianmaria trascorre quasi un anno in ospedale e torna senza memoria, prigioniero di un corpo che non riconosce più le persone amate. La madre, divorata dal senso di colpa, confessa che forse sarebbe stato più semplice piangerlo da morto anziché assistere a un’esistenza svuotata di identità. In quelle parole si concentra la brutalità del film: il dolore dei vivi non ammette celebrazione, rimanendo sospeso in una quotidianità che pare impermeabile alle lacrime. Gianmaria, incapace di piangere, osserva la famiglia sfilacciarsi, rendendosi conto che la rivoluzione desiderata da bambino non arriverà mai.
Un cast che incrocia generazioni
Ad accompagnare Angius davanti alla macchina da presa c’è il fratello Antonio Angius e un gruppo eterogeneo di interpreti che spaziano dalla freschezza di Simonetta Columbu alla presenza fisica di Edoardo Pesce, passando per le corde comiche di Michele Manca e l’intensità di Massimiliano Nocco. In un vortice di registri, ciascuno porta in dote un frammento di verità, contribuendo a un affresco corale dove la parola d’ordine è autenticità, non semplice adesione a un ruolo. Le dinamiche fra i personaggi emergono dunque non solo da ciò che è scritto, ma soprattutto da come ogni attore riempie i silenzi, ascolta l’altro, restituisce la fatica di stare al mondo.
A illuminare il film con incursioni inattese arrivano le partecipazioni amichevoli di Giuliana De Sio e Geppi Cucciari, presenze che dilatano ancora di più lo spettro emotivo del racconto. Senza mai rubare la scena, entrambe lasciano il segno attraverso poche ma incisive apparizioni, confermando l’equilibrio di un casting che mescola esperienza e freschezza. La loro presenza diventa un contrappunto prezioso, capace di far emergere sfumature di tenerezza e disincanto che riecheggiano a lungo, anche dopo la fine dei titoli di coda.
