Rianimare l’istante in cui la gioia era un respiro spontaneo, prima che le pretese adulte la trasformassero in prestazione: è il cuore pulsante di L’epoca felice, il nuovo romanzo di Cristina Comencini che raggiungerà le librerie il 14 ottobre per Feltrinelli. Una storia di memoria, libertà e cura di sé.
Il respiro segreto della felicità perduta
Nel panorama letterario italiano dell’autunno 2025, pochi titoli possiedono la forza visionaria di questo lavoro: Comencini rifiuta la retorica dell’entusiasmo a buon mercato e sceglie di indagare, con chirurgica precisione emotiva, l’intermittenza della gioia. Il romanzo chiede al lettore di ricordare l’adolescenza non come fase turbolenta da archiviare, ma come spartiacque in cui la felicità ancora non era negoziata con il dovere. Le sue pagine catturano l’energia grezza di quell’epoca, la restituiscono integra e mostrano quanto, da adulti, restiamo orfani di quella luce che non conosceva giudizio.
Questa lettura, che la redazione di Sbircia la Notizia Magazine ha analizzato insieme ai colleghi dell’agenzia Adnkronos per verificarne ogni riferimento storico e narrativo, parla all’oggi con sorprendente trasparenza. Gli accertamenti incrociati condotti con la testata partner confermano l’accuratezza delle immagini relative agli anni Settanta e la coerenza con le prassi mediche di allora. L’autrice mostra come la felicità possa trasformarsi in un gesto di resistenza silente, opponendo la vitalità individuale alla paura collettiva che, ieri come oggi, tende a sterilizzare la fantasia di giovani e adulti.
Cliniche del sonno e spettri della normalizzazione
Negli anni Settanta, quando gli scatti d’ira giovanili venivano interpretati come sintomi di disturbo e non come richieste di ascolto, alcune famiglie borghesi preferivano affidare i figli a strutture specializzate nelle cosiddette “cliniche del sonno”. Luoghi immacolati e silenziosi, in cui la sedazione era presentata come terapia e l’oblio come promessa di quiete. Comencini descrive questi spazi con dettaglio quasi documentaristico: corridoi ovattati, persiane sempre socchiuse, infermieri più guardiani che curanti. All’interno di questi ambienti si tenta di addomesticare l’energia adolescente, di renderla compatibile con il decoro familiare, cancellando qualsiasi traccia di desiderio irriducibile.
L’istituzione medica, in quel contesto, fungeva spesso da braccio operativo di una moralità timorosa: l’obiettivo non era curare, bensì livellare. Ridimensionare la vitalità per trasformarla in buona educazione. Il romanzo restituisce, attraverso episodi puntuali, il senso di claustrofobia che avvolgeva i pazienti: pasticche serali come biglietti di sola andata verso un sonno anestetico, voci attenuate dietro porte chiuse, genitori rassicurati da diagnosi che scambiavano l’inquietudine per patologia. Il racconto offre così una finestra lucida su un’Italia che, pur affacciandosi alla modernità, restava prigioniera di convinzioni rigide e di un sistema di controllo rivestito di buone maniere.
Rosa, ieri e oggi
Tra quei letti imbottiti di silenzio viene ricoverata Rosa, quindicenne insofferente a voti scolastici altalenanti e alle definizioni strette di una madre e di un padre incapaci di reggere la sua esuberanza. L’autrice ne disegna il profilo con inconfondibile delicatezza: occhi che cercano il mondo, gambe pronte alla fuga, una risata che la terapia vorrebbe soffocare. È lo sguardo della ragazza, ancora vergine di compromessi, a permetterci di assistere dall’interno al processo di domesticazione della felicità: un calendario di sedativi, conversazioni lampo con medici, quotidiani che scorrono senza impronte di vita.
Quando la narrazione si sposta al presente, ritroviamo Rosa medico affermato, reduce da missioni umanitarie che l’hanno condotta negli angoli più fragili del pianeta. Il ritorno in Italia, e nella casa dove tutto ebbe inizio, le impone una resa dei conti con quel passato ibernato. L’accoglienza delle sorelle Margherita e Viola non è soltanto affetto familiare: è il varco attraverso cui la protagonista tenta di ricucire il dialogo con la se stessa adolescente. La donna che cura gli altri deve ora curare la propria memoria, aprendosi alla possibilità che la felicità sia ancora un bene accessibile.
Tre sorelle, un patto di luce
Ognuna delle sorelle si avvicina al ricordo con una postura diversa, quasi a comporre un coro a tre voci. Margherita, la maggiore, è archivio vivente: custodisce dettagli minuti della gita in montagna immortalata nella fotografia incriminata, dai panini allo speck al colore dei calzettoni di Rosa. La sua precisione è la stampella su cui il romanzo appoggia la ricostruzione dei fatti. Viola, la minore, incarna invece la volontà di rompere il silenzio: la sua tenacia libera spifferi di verità in un ambiente familiare ancora incline alla rimozione. Insieme, le due diventano specchio e cardine del percorso interiore della protagonista.
La fotografia, scattata da un giovane rimasto senza nome nei ricordi di Rosa, rappresenta la miccia capace di riaccendere la pellicola della memoria. Sulle prime, l’immagine appare un residuo innocuo, un souvenir di vacanza; eppure, a osservarla meglio, i dettagli rivelano la complicità di uno sguardo, la promessa di un legame che il tempo non aveva diritto di cancellare. Il romanzo sviluppa questa tensione con andamento da indagine emotiva: ogni battuta fra le sorelle, ogni pausa fra i dialoghi, serve ad avvicinare la protagonista al momento in cui capirà non chi è stata, ma chi potrebbe ancora essere.
Fotografia, desiderio, resistenza
Nel gesto semplice di premere il pulsante della macchina fotografica, Comencini individua un atto di fiducia: cogliere l’attimo significa dichiarare che l’attimo merita di restare. Il romanzo filtra questa riflessione attraverso il vetro smerigliato del tempo: ciò che lo scatto ha salvato non è soltanto un ricordo, ma la prova materiale che la felicità esiste, persino quando la società la considera un lusso superfluo. La montagna sullo sfondo, la luce del pomeriggio, il sorriso disordinato di Rosa diventano materia di resistenza, un contrappunto alla disciplina che la clinica tentò di imporle.
Resistenza è parola chiave perché la felicità, nel lessico del romanzo, smette di essere stato d’animo per trasformarsi in scelta consapevole. Davanti a un mondo che mercifica le emozioni, Rosa scopre che proteggere il ricordo del proprio slancio giovanile è atto politico, gesto di disobbedienza alla cultura della rinuncia. Così l’album fotografico si trasfigura in manifesto privato: ogni immagine testimonia l’esistenza di una possibilità, alimenta la tensione verso un presente che non si limiti a replicare i vincoli del passato. La narrativa di Comencini incide questa consapevolezza con precisione, senza concessioni a sentimentalismi facili.
La società che teme la gioia
Il testo non si limita a raccontare una vicenda personale: smaschera una mentalità collettiva che reputa la gioia materia sospetta, inadatta ai toni seri dell’informazione. Bambini e adolescenti, osservati nel loro slancio naturale, rivelano invece quanto la felicità sia condizione istintiva finché non interviene la pedagogia della paura. Le pagine ricordano citazioni di Natalia Ginzburg, quando suggeriva che ai ragazzi servono presenze, non prediche; ed è qui che il romanzo diventa specchio impietoso di un mondo adulto incapace di reggere la purezza di quel desiderio. L’effetto è straniante e al tempo stesso rivelatore.
Accanto a questa analisi, Comencini elenca i mantra di una tradizione pedagogica basata sul sospetto: “La vita è dura”, “Accontentati”, “L’erba voglio non esiste”. Sono frasi che disinnescano ogni spinta creativa, scoraggiando l’esplorazione e autorizzando la mediocrità. Il libro mostra come tali convenzioni non si siano estinte, ma abbiano cambiato forma: oggi riemergono nelle ansie da prestazione, nei filtri social che pretendono di catalogare la felicità in scatti patinati, nelle vacanze dei diciottenni gestite più con tabelle di controllo che con curiosità. La libertà diventa invisibile, la leggerezza un pericolo da evitare.
Adolescenza, oggi
Davanti a una generazione che vive perennemente connessa ma raramente presente, l’autrice propone un ritorno alla ricerca diretta, fisica, di esperienze che scuotano il corpo oltre la superficie digitale. La vacanza dei diciottenni, emblematico passaggio di prova, non è più terreno di avventura ma di ansie di prestazione: si viaggia monitorati da chat di famiglia, si condividono foto per rassicurare genitori e follower, si controllano costantemente costi e reputazione. In questo scenario, l’adolescenza sembra ridursi a bozza prudente di un futuro già scritto, mentre il desiderio autentico rimane sospeso come un’opzione remota.
Eppure, ricorda il libro, la condizione di possibilità è ancora aperta: la Dichiarazione d’indipendenza statunitense riconosce il diritto alla “pursuit of happiness” e Comencini si chiede se il nostro immaginario collettivo conceda lo stesso margine. Il lettore è spinto a interrogarsi: abbiamo interiorizzato l’idea che la felicità sia schema da minimizzare per non sembrare ingenui? O siamo pronti a rivendicarla come progetto serio, degno di attenzione pubblica? In questo dialogo implicito, il romanzo offre più che risposte: offre brecce, spiragli da cui far entrare aria e rivolta.
L’epoca felice, un romanzo necessario
A rendere questo libro imprescindibile non è la sola trama, pur avvincente, bensì la capacità di tessere insieme riflessione sociale e precisione narrativa. Cristina Comencini utilizza la lingua con tatto e rigore: frasi brevi che si aprono in registri lirici, descrizioni asciutte che tradiscono una sensibilità cinematografica. Il risultato è un’opera che vibra di tensione etica: invita a non abdicare al diritto di sentirsi vivi, a restituire dignità alle emozioni senza trasformarle in merce. In tempi di storie urlate e sorrisi filtrati, L’epoca felice spicca per la sua onestà mordente.
La nostra redazione, in sinergia con Adnkronos, ha riscontrato l’attualità urgente dei temi affrontati: dal controllo sociale sulla crescita individuale alla dialettica fra cura e repressione. Ogni elemento narrativo, pur nel perimetro della finzione, risulta fondato su dati storici verificati; ciò rafforza la credibilità di un racconto che ambisce a superare il recinto romanzesco per insinuarsi nel dibattito pubblico. Essere felici, suggerisce Comencini, non è miraggio consolatorio: è pratica quotidiana di coraggio e immaginazione. Un monito e, al contempo, un abbraccio che il lettore fatica a dimenticare.
Domande rapide
Qual è il nucleo tematico principale di “L’epoca felice”? Il romanzo esplora la felicità come gesto di resistenza contro un sistema sociale che tende a etichettare, sedare e uniformare. Attraverso la vicenda di Rosa e delle sue sorelle, Cristina Comencini mostra come la gioia non si riduca a un premio da conquistare, ma coincida con la capacità di restare presenti a se stessi, di valorizzare il desiderio e di preservare la memoria di un’adolescenza libera, anche quando il contesto prova a cancellarla o ridimensionarla.
Perché la figura di Rosa risulta particolarmente attuale? Rosa incarna la generazione adulta che, dopo aver attraversato studi, lavoro e missioni umanitarie, deve fare i conti con i vuoti lasciati dalle scelte imposte in gioventù. Il suo ritorno in patria coincide con la presa di coscienza che l’autenticità non può essere procrastinata all’infinito: va riconquistata, nome per nome. In un momento storico dominato da stress, monitoraggi continui e aspettative di performance, la protagonista diventa specchio di chiunque avverta la necessità di ricongiungersi alla parte più viva, ingenua e curiosa del proprio passato.
Che ruolo svolge l’adolescenza all’interno della trama? L’adolescenza è l’epicentro emotivo dell’opera: un magnete che trattiene frammenti di identità, sogni non negoziati e scariche di energia che gli adulti spesso temono. Nel romanzo, quella fase rappresenta sia rifugio sia campo di battaglia. Rifugio perché protegge la parte autentica di Rosa, campo di battaglia perché è lì che la società tenta di reprimere ciò che non comprende. Rivisitare quegli anni consente alla protagonista di riappropriarsi di un lessico interiore non contaminato dalla logica della prestazione, rivelando quanto quel tempo sia ancora motore segreto del presente.
Cosa può insegnare “L’epoca felice” ai lettori di oggi? Il romanzo suggerisce che la felicità non è un punto d’arrivo certificato, ma una pratica che richiede vigilanza, coraggio e complicità. Leggendolo, si comprende che il primo atto di ribellione consiste nel difendere il diritto a desiderare, sottraendolo alle logiche di profitto e agli imperativi di normalità. L’opera invita a riscoprire la dimensione del gioco, dell’attesa, della presenza piena in ogni gesto, ricordando che la gioia, quando si manifesta, non va archiviata come incidente di percorso, ma tutelata come bene comune e personale insieme.
Tra le righe, il futuro
La lettura di L’epoca felice restituisce al dibattito pubblico un tema troppo spesso relegato alle pagine di costume: il diritto alla gioia. Come redazione di Sbircia la Notizia Magazine, insieme all’agenzia Adnkronos, sentiamo il dovere di sottolinearne la portata politica: celebrare la felicità significa rivendicare spazi di libertà in una società che preferisce la sorveglianza alla meraviglia. Chiudiamo dunque questo viaggio con un invito: coltivare la scintilla adolescente che ciascuno porta dentro, perché da lì – e solo da lì – può nascere un domani meno pavido e più umano.