Nell’aula di Bruxelles il grido di allarme di Ilaria Salis risuona chiaro: se dovesse tornare a Budapest, cadrebbe nelle mani di un potere che, a suo dire, vuole annientarla. Le parole della neo eurodeputata di Avs delineano uno scontro politico senza precedenti, in cui è in gioco la stessa idea europea di giustizia.
Un clima che non concede tregua
Da quando ha conquistato il seggio a Strasburgo, Ilaria Salis racconta di vivere sotto un tiro incrociato che non conosce pause. Secondo la parlamentare, il governo guidato da Viktor Orban avrebbe intrapreso una campagna di delegittimazione che la dipinge come una terrorista, un’etichetta che ritorna in dichiarazioni ufficiali e interviste, alimentando un clima ostile dentro e fuori l’Emiciclo. Lo scontro non riguarda soltanto il suo destino personale, ma diventa il simbolo di un conflitto più ampio fra chi rivendica i valori fondanti dell’Unione e chi, al contrario, li considera un ostacolo da aggirare. In questo contesto, ogni seduta parlamentare si trasforma in una prova di resistenza.
In pochi mesi di mandato, le tensioni si sono moltiplicate. Ogni volta che la deputata prende la parola in Aula, dal settore occupato dai rappresentanti di Fidesz partono bordate di insulti e insinuazioni, denunciate come un tentativo sistematico di ridurla al silenzio. Il portavoce del premier, Zoltan Kovacs, ha più volte sentenziato che il posto di Salis sarebbe la cella e non l’emiciclo, frasi che – sottolinea l’interessata – pregiudicano gravemente la presunzione d’innocenza. Nella dialettica politica, le critiche sono fisiologiche; diverso è l’uso della minaccia come strumento di governo della paura.
La decisione della Commissione Juri e le sue ripercussioni istituzionali
La stretta votazione in seno alla commissione Juri del Parlamento Europeo – conclusasi con una maggioranza risicata contraria alla revoca dell’immunità – ha rappresentato, per la parlamentare, la conferma che i sospetti sulla mancanza di garanzie in Ungheria non sono infondati. Una democrazia, sostiene, si misura dalla tutela delle minoranze e dei suoi oppositori più scomodi: quando questa tutela vacilla, ogni procedura formale perde di sostanza. Nel corso della conferenza stampa, Salis ha sottolineato come la commissione abbia riconosciuto «ciò che chiunque esamini i fatti senza preconcetti può vedere», ovvero un sistema giudiziario piegato alla volontà dell’esecutivo.
La deputata ha ricordato i quindici mesi trascorsi in custodia cautelare in condizioni che descrive come disumane: celle sovraffollate, limitazioni d’assistenza legale e accuse mai supportate da prove concrete. Tali elementi, assicura, certificano la realtà di una persecuzione che non può essere liquidata a questione interna. Il regime ungherese, aggiunge, avrebbe persino atteso il giorno successivo al suo intervento in plenaria – tenuto proprio di fronte al premier – per inviare a Bruxelles la richiesta di revoca dell’immunità, gesto interpretato come una replica punitiva alle sue parole.
Un assalto ai principi dello Stato di diritto
Agli occhi di Salis, l’accanimento governativo evidenzia il passaggio da una democrazia imperfetta a quella che gli studiosi definiscono «democratura»: un sistema dall’apparenza pluralista, ma svuotato nei suoi contrappesi. L’uso politico della giustizia, prosegue, si manifesta nell’attitudine di definire colpevole un avversario prima ancora dell’apertura del dibattimento, violando il principio cardine della presunzione d’innocenza. Quando un esecutivo etichetta un suo cittadino come nemico pubblico senza attendere il giudizio di un tribunale indipendente, l’istituzione stessa del processo perde legittimità e diventa strumento di intimidazione collettiva.
La parlamentare di Avs, pur consapevole della fragilità che accompagna la sua posizione, afferma di voler continuare la battaglia in sede europea con gli strumenti della politica e del diritto. Rivolge un appello ai colleghi affinché non considerino il suo caso un’eccezione, ma il termometro di una crisi più ampia che investe l’architettura stessa dell’Unione. Se la tutela offerta dall’immunità venisse meno, ribadisce, l’estradizione in Ungheria aprirebbe la strada a quella che definisce una «persecuzione spietata», scenario che, a suo giudizio, l’Europa non può permettersi di ignorare.
