Blindata Manhattan fa da sfondo alla nuova tappa della missione americana di Giorgia Meloni, che, partecipando ai lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, intreccia diplomazia, politica interna e test di forza con le opposizioni. In gioco c’è il riconoscimento della Palestina e il confronto con le strategie europee, mentre sullo sfondo risuonano le accuse incendiarie di Donald Trump all’Onu.
Diplomazia italiana e condizioni imprescindibili
Il governo italiano sceglie una via circoscritta e ben marcata: il sì al riconoscimento dello Stato palestinese avverrà soltanto se saranno soddisfatte due precondizioni ritenute non negoziabili. La prima riguarda la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas; la seconda impone l’esclusione del movimento islamista da qualsiasi futuro assetto di potere nei Territori. Per Palazzo Chigi, senza questi punti fermi la legittimazione internazionale rischierebbe di trasformarsi in un gesto privo di ricadute concrete per la popolazione palestinese, oltre a vanificare gli sforzi di sicurezza per Israele. Il messaggio lanciato da Meloni nella sede della Rappresentanza permanente è stato inequivocabile: si tratta di un approccio “realista” che intende coniugare principi di diritto internazionale e ragioni politiche interne.
La premier ha inoltre precisato che la “pressione diplomatica” evocata da molti partner occidentali dovrebbe concentrarsi innanzitutto su Hamas, considerato l’attore che ha avviato il nuovo ciclo di violenze e che, rifiutandosi di consegnare gli ostaggi, ostacola ogni prospettiva di tregua. A suo avviso, il riconoscimento anticipato dello Stato palestinese, privo di piena sovranità e di istituzioni stabili, non solo non risolverebbe il conflitto ma rischierebbe di alimentare false aspettative. L’Italia, avvicinandosi in questo alla linea di Berlino, si smarca così dal recente annuncio di Emmanuel Macron, deciso a procedere con la piena legittimazione di Ramallah indipendentemente dall’evoluzione sul terreno.
Contrappunto interno: il ruolo delle opposizioni e la strategia della maggioranza
La mozione che la maggioranza porterà alla Camera è pensata anche per testare la coesione dei partiti avversari. Nel suo incontro con la stampa, Meloni ha auspicato che l’iniziativa possa “accogliere il voto di chiunque abbia buonsenso”, escludendo di fatto solo gli estremismi. Per la premier, il no o l’astensione equivarrebbero a un sostegno implicito a chi ostacola la pace, mentre il sì certificherebbe la volontà di condividere responsabilità e compromessi. La scommessa politica consiste nel costringere il centrosinistra a scegliere se schierarsi con la linea dei governi di Francia e Regno Unito oppure avallare i due paletti indicati da Palazzo Chigi.
Dall’altro lato dell’emiciclo piovono accuse di immobilismo: la presidente del Consiglio viene rimproverata di non essersi accodata al fronte dei Paesi che hanno già riconosciuto la Palestina, elevando a quota centocinquanta le bandiere favorevoli nei corridoi dell’Onu. Meloni, però, replica che la prudenza non è inerzia: è, semmai, la volontà di non scollegare simboli e risultati tangibili. In questo braccio di ferro, la questione degli ostaggi diventa la cartina di tornasole che misurerà non tanto la retorica quanto la capacità concreta di influenzare le parti in conflitto.
Trump all’Onu: un ciclone che riscrive il palcoscenico
Alla vigilia dell’intervento ufficiale di Meloni, il palco dell’Assemblea è stato dominato dallo show di Donald Trump, tornato a New York con toni al vetriolo. Il tycoon ha accusato le Nazioni Unite di “finanziare” l’immigrazione irregolare verso l’Occidente, di averlo lasciato solo nei tentativi di mediazione e di non aver saputo frenare la dipendenza energetica europea da Mosca. Fra i delegati serpeggiava un misto di incredulità e curiosità: la sua oratoria polarizzante, infatti, ha lacerato la platea ma ha anche fatto emergere nodi irrisolti del multilateralismo. Seduta in sala, Meloni ha ascoltato con attenzione, registrando consonanze e divergenze.
La premier italiana ha poi ammesso di condividere diverse preoccupazioni sollevate dall’ex presidente: dalla necessità di un controllo più serrato dei flussi migratori alle critiche verso un Green Deal percepito come costoso e poco efficace. Le sfumature, tuttavia, emergono sul fronte ucraino. Mentre Trump ha puntato l’indice contro un presunto lassismo europeo, Meloni ha respinto l’accusa di ambiguità, rivendicando la fermezza dell’Unione e sottolineando come il successo di una “pace giusta e duratura” passi anche dalla rinnovata collaborazione con Washington.
Energia, Ucraina e alleati: quando le sfumature contano più delle dichiarazioni
A margine del dibattito, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha voluto puntualizzare che l’Italia, ormai da tempo, non acquista né gas né petrolio dalla Russia, ribadendo la chiarezza della scelta energetica compiuta da Roma. Il commento è arrivato proprio mentre il discorso di Trump bacchettava i partner europei per le forniture di idrocarburi russi, definendole “imbarazzanti”. Per il governo italiano, l’indipendenza dalle importazioni di Mosca è una prova tangibile di coerenza con le sanzioni e con il sostegno a Kyiv, cui si somma l’impegno a diversificare le fonti lungo il Mediterraneo.
Sul versante ucraino, Meloni ha rinnovato la convinzione che solo una cabina di regia occidentale coesa possa asfaltare la strada verso il cessate il fuoco e, in prospettiva, un accordo di pace. L’argine a un conflitto che dura da oltre tre anni, secondo la premier, non può essere costruito a compartimenti stagni. Servono, piuttosto, sinergie tra Unione europea e Stati Uniti, capaci di coniugare sostegno militare, assistenza civile e pressioni diplomatiche su Mosca, evitando che l’energia diventi arma di ricatto e, al contempo, garantendo a Kyiv la prospettiva di una ricostruzione credibile.
Agenda fitta di faccia a faccia bilaterali
Se i riflettori mediatici restano puntati sulla mozione palestinese e sulle bordate di Trump, la giornata newyorkese di Meloni scorre tra incontri bilaterali dal peso specifico non trascurabile. Tra i colloqui più attesi figurano quelli con il presidente siriano Ahmad Husayn al Shara, il capo di Stato libanese Joseph Aoun, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La fitta agenda suggerisce un tentativo di consolidare alleanze regionali strategiche, fondamentali per la gestione dei dossier mediterranei, energetici e migratori. Nonostante i protocolli rigidissimi di sicurezza, la premier mette in fila strette di mano decisive per rafforzare l’immagine internazionale di Roma.
La chiusura simbolica arriverà con l’intervento in plenaria, previsto in nottata per il pubblico italiano. Meloni si appresta a salire sul podio con l’intenzione di ribadire i cardini della politica estera tracciata finora: sostegno all’Ucraina, gestione multilivello dei flussi migratori, centralità del Mediterraneo e difesa degli interessi nazionali nell’ambito della transizione energetica. La sfida consisterà nel tradurre la retorica in risultati, dribblando tanto le tensioni sul Medio Oriente quanto quelle interne. Alla fine, il palazzo di vetro resterà il banco di prova decisivo per capire se la strategia del doppio binario – fermezza sui principi e apertura al dialogo – saprà produrre un reale avanzamento verso la stabilità.
