Una realtà professionale in costante metamorfosi obbliga i candidati a ripensare il loro percorso: la laurea rimane un titolo di rilievo, ma non rappresenta più l’unico lasciapassare. I dati di un’indagine condotta su 500 selezionatori italiani ridisegnano il panorama delle assunzioni e invitano a interrogarsi su quali competenze contino davvero oggi.
La laurea non è morta, ma cambia ruolo
Un dato spicca su tutti: il 42% delle offerte di lavoro continua a indicare il titolo universitario come requisito esplicito. Non solo: quasi la metà dei responsabili del personale – parliamo di un 47% – ammette di aver rafforzato la richiesta di studi formali negli ultimi tre anni. Questa stretta, spesso motivata da preoccupazioni sulla qualità dei candidati (37%) o da preferenze dei vertici aziendali (32%), conferma che il pezzo di carta conserva un peso simbolico considerevole. Tuttavia, la stessa ricerca evidenzia crepe nella sua centralità: un 49% dei recruiter avverte che il valore dei corsi universitari si deteriora rapidamente, accelerato da tecnologie e processi che mutano di stagione in stagione.
Ancora più significativa risulta l’insoddisfazione verso la preparazione pratica fornita dagli atenei. Ben il 62% degli intervistati sostiene che i programmi non dotino i neolaureati di competenze immediatamente spendibili in azienda. Tale percezione alimenta una riflessione cruciale: se i saperi accademici inseguono il mercato, le imprese si ritrovano costrette a intervenire in prima persona sulla formazione. Ecco perché un datore su quattro (26%) dichiara di essere pronto a eliminare del tutto la richiesta di laurea o di esperienza pregressa, purché il candidato dimostri abilità concrete in altri modi, magari attraverso corsi brevi, workshop o progetti personali.
I timori dei recruiter e l’evoluzione delle competenze
Dietro la tentazione di superare il vincolo del titolo di studio si nasconde un contesto più ampio. Le aziende lamentano difficoltà crescenti nel reclutare talenti all’altezza delle sfide odierne: processi digitali, mercati volatili e nuove professionalità rendono complessa la selezione. A questo scenario si aggiunge lo spettro dell’Intelligenza artificiale, la cui diffusione spinge il 18% dei datori di lavoro a considerare un sistema automatizzato come valida alternativa a un neo‐laureato in attività standardizzabili. Il messaggio è chiaro: non basta aver studiato, occorre dimostrare di saper evolvere alla stessa velocità delle macchine.
Proprio per questo la conversazione si sposta dal curriculum alle competenze reali. Gli stessi selezionatori che in passato guardavano quasi esclusivamente al percorso di studi ora chiedono flessibilità e “apprendimento continuo”. Sempre più spesso, l’accento cade su percorsi ibridi: certificazioni tecniche, esperienze sul campo e formazione autodidatta vengono valutate alla stregua di un esame universitario, se non oltre. In un mercato così fluido, ciò che conta è la capacità di affrontare problemi nuovi, non la familiarità con modelli già superati.
Soft skill: il nuovo biglietto da visita
Se la parte “dura” del sapere può essere aggiornata con corsi e tutorial, quella “morbida” – le soft skill – risulta più difficile da insegnare velocemente. Ecco perché diventano decisive per i profili junior. Il sondaggio rivela che la qualità più ricercata è l’attitudine al lavoro di squadra (52%), seguita a ruota da adattabilità e flessibilità (50%). Altrettanto apprezzati sono problem‐solving e pensiero critico (50%), competenze che permettono di gestire situazioni inedite senza attendere istruzioni.
L’agilità di apprendimento e la curiosità raccolgono il favore del 44% dei recruiter, mentre la proattività – la capacità di prendere iniziativa anziché subire gli eventi – si attesta al 40%. In sostanza, le aziende sembrano disposte a formare le competenze tecniche, purché trovino persone che sappiano collaborare, adattarsi e mantenere viva la spinta a migliorarsi. Per i candidati questo significa presidiare aree finora date per scontate, come la gestione delle emozioni, l’ascolto attivo e la chiarezza nella comunicazione.
Lo sguardo di Gianluca Bonacchi
Nel commentare i risultati dell’indagine, Gianluca Bonacchi, talent strategy advisor, osserva che l’istruzione formale «continua a essere tenuta in grande considerazione», specialmente in ambiti regolati o altamente specialistici. Allo stesso tempo, riconosce che la rapidità con cui cambiano gli strumenti di lavoro impone una formazione continua. Settori tradizionali continueranno a richiedere un diploma universitario, ma le porte si apriranno anche a chi saprà dimostrare competenze acquisite fuori dall’aula, in laboratorio o attraverso progetti personali.
Bonacchi conclude che l’intelligenza artificiale, lungi dal sostituire interamente la figura umana, spingerà i datori di lavoro a valorizzare competenze che i software non replicano: creatività, empatia, pensiero laterale. La laurea resta quindi un asset, ma perde il monopolio del merito. In un mercato del lavoro che cambia alla velocità di un aggiornamento software, ciò che differenzia un candidato non è più soltanto il voto finale, bensì la dimostrazione costante di saper apprendere, adattarsi e collaborare con tecnologie e persone.
