Durante un intervento infuocato alle Nazioni Unite, Donald Trump ha biasimato le capitali europee per gli acquisti di energia russa. Numeri alla mano, la realtà è complessa e attraversa oleodotti, terminali di gas naturale liquefatto e un reticolo di sanzioni che ancora non ha reciso del tutto il cordone che lega Bruxelles alle forniture di Mosca.
Uno scontro politico che affonda nei dati
Le parole pronunciate dall’ex presidente nel palazzo di vetro arrivano mentre l’Unione europea tenta di accelerare il distacco dalle risorse di Mosca. Bruxelles ha fissato il 2026 come limite ai nuovi contratti sul gas e la fine del 2027 per azzerare gli acquisti di petrolio, ma il percorso è tortuoso. Ad agosto 2025, quando la guerra in Ucraina ha oltrepassato i tre anni, l’Unione assorbiva ancora l’8% delle esportazioni energetiche russe, una percentuale piccola in apparenza, ma sufficiente per suscitare le accuse di Washington.
Sul banco degli imputati, secondo Trump, finiscono i governi che non hanno sfruttato il tempo concesso per trovare alternative. Il richiamo del tycoon scuote soprattutto gli esecutivi di Europa centrale, che continuano a dipendere in larga misura dagli oleodotti sovietici ereditati dal passato. Le parole del leader repubblicano si trasformano così in un test politico: dimostrare che la solidarietà atlantica non si misura soltanto con le forniture militari destinate a Kiev, ma anche con la capacità di tagliare i flussi di denaro che alimentano il bilancio russo.
Dal Druzhba ai terminali Gnl: chi compra ancora energia russa
Il grosso delle forniture petrolifere sopravvive grazie all’oleodotto Druzhba, che letteralmente significa ‘amicizia’ ma oggi rappresenta un legame difficile da recidere. Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca continuano a prelevarne il contenuto: le prime due si reggono su una dipendenza che, rispettivamente, tocca il 100% e l’86% del fabbisogno. Solo nel mese di agosto, Budapest ha versato 416 milioni di euro a Mosca, Bratislava altri 276 milioni. Cifre che raccontano una resilienza energetica ancora eminentemente russa e che inseriscono l’intera area in un contesto delicato di negoziati con Bruxelles, chiamata a coniugare sicurezza energetica e fermezza geopolitica.
La dipendenza non si esprime soltanto in barili di greggio. Dall’altra parte del continente, Francia, Paesi Bassi e Belgio continuano a sbarcare Gnl russo nei propri terminali costieri. Parigi, sola, ha versato 157 milioni di euro ad agosto per riempire i serbatoi di gas naturale liquefatto. Questi contratti, per quanto ridotti rispetto al passato, mantengono aperta una ferita simbolica nel fronte europeo: mentre Kiev invoca nuove sanzioni, parte dell’Europa occidentale consolida ancora i propri stoccaggi con metano proveniente dalla Siberia.
Gli effetti reali delle sanzioni comunitarie
Le misure varate da Bruxelles si concentrano in primo luogo sul trasporto via mare. È stato introdotto un tetto al prezzo del petrolio russo che viaggia su navi battenti bandiera europea, affiancato da un divieto totale di operare sui gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2. A ciò si aggiunge il blocco delle importazioni di carbone, di prodotti petroliferi raffinati e del Gpl, oltre alla proibizione di riesportare Gnl russo attraverso gli impianti dell’Unione. Il pacchetto include anche lo stop a nuovi investimenti nel settore minerario ed energetico di Mosca.
L’obiettivo dichiarato è erodere la capacità finanziaria del Cremlino, ma l’esperienza dimostra che il blocco non è ermetico. Le deroghe concesse per preservare la sicurezza degli approvvigionamenti hanno lasciato aperti varchi che alcuni Stati continuano a percorrere. Gli analisti ricordano come le sanzioni abbiano sì limitato la fetta europea, ma abbiano al contempo stimolato il riposizionamento del petrolio russo verso Cina e India, che insieme assorbono oggi il 65% dell’export di Mosca, con Pechino al 40% e Nuova Delhi al 25%.
Washington, tra abbondanza interna e acquisti mirati
La Casa Bianca replica alle accuse di doppio standard ricordando che gli Stati Uniti non importano né petrolio né gas in quantità significative dalla Russia, complice una produzione interna ormai stabilmente sopra la soglia della piena autosufficienza. Trump, tuttavia, trascura di menzionare che Washington continua ad acquistare altre materie prime strategiche da Mosca: fertilizzanti, palladio e, soprattutto, uranio arricchito. Per questi prodotti, spiegano i funzionari del Dipartimento dell’Energia, il mercato globale non offre rimpiazzi immediati o cessioni alternative capaci di soddisfare la domanda interna con i medesimi standard di qualità e costi.
La conseguenza è un paradosso diplomatico che alimenta le critiche europee: Washington sollecita l’UE a rinunciare all’energia russa mentre continua a servirsi di componenti essenziali per le proprie filiere agricole, automobilistiche e nucleari. La dipendenza selettiva degli Stati Uniti rivela come, nella pratica, ogni economia cerchi di calibrare la pressione sul Cremlino senza minare la propria stabilità. Il confronto, pertanto, si sposta dal terreno morale a quello degli interessi nazionali, dove ciascun governo dosa sanzioni, deroghe e proclami secondo le proprie priorità interne.
