La voce di Ilaria Salis risuona decisa tra i corridoi delle istituzioni europee: chiede di essere giudicata in patria, certa che solo in Italia potrà affrontare un processo davvero imparziale.
Il richiamo alla giustizia nazionale
In un colloquio con il Corriere della Sera, Salis ribadisce un concetto semplice e insieme dirompente: non intendo sottrarmi al giudizio, ma rifiuto un’aula dove la condanna paia definita in anticipo. Nelle sue parole affiora la fiducia nella magistratura italiana, considerata l’unica in grado di garantirle un dibattimento conforme ai principi democratici. Il timore, spiega, è che in Ungheria prevalga una logica politica che soffocherebbe ogni garanzia processuale, trasformando l’intero procedimento in un rituale punitivo già deciso nelle stanze del potere.
Salis non parla di astratte tutele, ma di un diritto concreto: quello a un processo equo. Sottolinea che chiunque, a prescindere dalle accuse, deve poter contare su regole chiare e imparziali. Difendere la propria immunità parlamentare, in questo momento, diventa per lei il solo modo per spostare il giudizio dove il contraddittorio sia reale e non solo formale. Da qui la richiesta, avanzata con forza, che lo Stato italiano prenda in carico l’azione penale, attivando ogni strumento giuridico disponibile per trasferire il fascicolo entro i confini nazionali.
Dietro le porte chiuse di Bruxelles: l’immunità in bilico
Mentre le sue parole rimbalzano sui media, la Commissione Juri del Parlamento europeo si riunisce a porte chiuse per votare sulla revoca dell’immunità di Salis. L’esito del voto, pur ancora riservato, potrebbe aprire la strada a un processo entro la competenza ungherese, scenario che l’eurodeputata vive come la peggiore delle ipotesi. La decisione, sottolineano i suoi legali, ha un peso che va oltre il singolo caso: tocca il tema dell’indipendenza giudiziaria nei Paesi membri.
Di fronte a quella porta chiusa, l’eurodeputata ribadisce che l’immunità non rappresenta un privilegio, bensì un presidio democratico in situazioni dove lo squilibrio istituzionale rischia di compromettere la presunzione d’innocenza. L’eventuale revoca renderebbe immediatamente esecutiva la richiesta di arresto ungherese, confermando – nei timori di Salis – la sensazione di un procedimento confezionato ad hoc. In gioco non c’è solo la sua vicenda personale, ma il principio di un controllo parlamentare effettivo sul rispetto dei diritti fondamentali.
Le accuse, la giornata dell’onore e l’origine del caso
Secondo l’atto d’indagine proveniente da Budapest, Salis avrebbe aggredito due militanti neonazisti durante la cosiddetta “giornata dell’onore”, un raduno che omaggia il tentativo – fallito – di truppe del Terzo Reich e dell’esercito ungherese di rompere l’assedio sovietico nel 1945. Per la procura magiara si tratta di un gesto violento premeditato, maturato in ambienti dell’estrema sinistra internazionale. L’eurodeputata respinge questa ricostruzione e rivendica la legittimità di un dibattimento che sappia discernere tra fatti accertati e suggestioni ideologiche.
Il conflitto di narrazioni è evidente: da una parte l’accusa di aggressione, dall’altra la denuncia di una manifestazione celebrativa di nostalgie naziste. In questo intreccio, Salis sostiene il diritto a confrontarsi con prove e testimoni in un foro indipendente. Insiste nel dire che la sua richiesta di trasferimento non nasce da timore personale, ma da un’esigenza di giustizia: «Voglio difendermi – afferma – non eludere il giudizio».
Un anno di catene: detenzione e indignazione internazionale
Il caso ha assunto contorni drammatici quando, dopo oltre dodici mesi di custodia cautelare, Salis è comparsa in tribunale con catene ai polsi e alle caviglie. Le immagini, diffuse sui media italiani, hanno provocato una reazione indignata nell’opinione pubblica e all’interno dello stesso Parlamento europeo. Le condizioni detentive descritte dagli avvocati vengono definite degradanti, con celle sovraffollate e scarsa igiene, in aperto contrasto con gli standard di tutela dei diritti umani.
Quella sequenza di scatti, per molti, è diventata il simbolo di un sistema penitenziario che fatica a garantire la dignità dei detenuti. Da lì l’eco si è fatta più intensa, coinvolgendo associazioni, partiti di diverso orientamento e persino alcuni governi europei. Nel dibattito si intrecciano temi di civiltà giuridica e di libertà personale: ogni detenuto – ribadiscono numerose voci – merita un trattamento che non comprometta la sua integrità fisica e psicologica, a prescindere dalle accuse.
Le strade giuridiche e l’appello al governo
Gli avvocati dell’eurodeputata ricordano che l’ordinamento italiano conosce procedure per assumere la giurisdizione su reati contestati all’estero, purché sussistano determinati requisiti. In passato l’iniziativa è partita, a volte, dalla Procura, altre dal Ministero della Giustizia. Forte di questi precedenti, Salis invita il governo a compiere un passo formale verso le autorità ungheresi per richiedere il trasferimento del procedimento, confidando che un’azione diplomatica coordinata possa tradursi in un accordo giudiziario.
La richiesta, indirizzata a Palazzo Chigi e via Arenula, è perentoria ma non polemica: il vero obiettivo è un processo libero da pressioni politiche. L’eurodeputata, oggi in attesa delle decisioni di Bruxelles, sa che il tempo incalza. Scommette, però, su un principio fondamentale: in Italia – ripete – le garanzie esistono e funzionano. È lì che intende confrontarsi, alla luce del sole, con le accuse che le vengono mosse.
