Il rapido invecchiamento demografico italiano impone risposte immediate per salvaguardare mercato del lavoro e tenuta del welfare; servono scelte coerenti e coordinate prima che gli squilibri si cristallizzino.
Squilibrio demografico e occupazione
La fotografia scattata dall’Inapp davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica è nitida e impietosa: nell’arco dei prossimi dieci anni circa 6,1 milioni di lavoratori raggiungeranno l’uscita dal mercato, mentre il bacino giovanile non sarà in grado di coprirne il vuoto. Se lo sguardo si spinge al 2060, la fascia d’età 20-64 anni perderà addirittura il 34% dei suoi componenti, con un inevitabile aumento dell’indice di dipendenza demografica. Senza un cambio di rotta, la diminuzione della forza lavoro ridurrà la capacità produttiva, la crescita potenziale e la base contributiva che alimenta il sistema previdenziale.
Le conseguenze di questa tendenza sono già intuibili: la quota di spesa pensionistica è proiettata verso il 17% del Pil entro il 2040, mentre oltre 4 milioni di over 65 necessitano di assistenza continua. Parallelamente, la ricerca di personale con competenze adeguate diventa sempre più complessa, complice la scarsità di profili tecnico-specialistici e digitali. Il risultato è una spirale in cui imprese, amministrazioni pubbliche e famiglie si contendono risorse umane che si assottigliano, alimentando pressioni sui salari, sui bilanci pubblici e sulla competitività internazionale del Paese.
Rigenerare i bacini inattivi e promuovere l’invecchiamento attivo
Una via immediata per arginare il calo degli occupati consiste nello sbloccare quei bacini di potenziale che già esistono ma restano inutilizzati. In cima alla lista compaiono le 7,8 milioni di donne tra 15 e 64 anni oggi fuori dal mercato, delle quali oltre 1,2 milioni dichiarano di essere disponibili a lavorare. Nelle regioni meridionali, e in particolare in Campania e Sicilia, la percentuale di inattive pronte a rientrare supera il 23%. Eppure l’ostacolo principale non è l’assenza di capacità, bensì la mancanza di servizi di cura, di orari conciliabili e di offerte retributive dignitose, fattori che inducono l’80% delle donne inattive delle età centrali a scegliere la famiglia rispetto al lavoro.
L’energia latente non si esaurisce nell’universo femminile. Circa 1,4 milioni di adulti – in larga parte giovani – rientrano nella categoria dei Neet: non studiano, non lavorano, non cercano un’occupazione. Offrire orientamento, formazione digitale e incentivi mirati potrebbe trasformarli in contribuenti attivi in tempi brevi. Nel frattempo, il 54,9% degli occupati ha già superato i 45 anni; serve dunque un approccio di age management che consenta di mantenere viva, produttiva e tutelata l’esperienza dei lavoratori maturi attraverso aggiornamento continuo, flessibilità organizzativa e percorsi di uscita graduale, affinché la seniorità diventi un valore condiviso e non un costo da ridurre.
Welfare sotto pressione: la questione sostenibilità
La tenuta del welfare pubblico dipende dalla capacità di distinguere tra bisogni diversi e di allocare le risorse in modo selettivo. Oggi la spesa per prestazioni sociali raggiunge 587,5 miliardi di euro, pari al 59,3% della spesa corrente dello Stato, ma solo 57,1 miliardi alimentano l’assistenza sociale e meno della metà si traduce in servizi diretti alla persona. Questo squilibrio costringe famiglie e territori a colmare le lacune con soluzioni improvvisate, alimentando disuguaglianze regionali e rinunciando a un approccio organico di presa in carico.
La popolazione più fragile, rappresentata da oltre 4 milioni di over 65 non autosufficienti, riceve un supporto frammentato: appena il 7,6% risiede in strutture residenziali e il 30,6% beneficia di assistenza domiciliare integrata. La nuova legge 33/2023 e le misure del Pnrr puntano alla de-istituzionalizzazione, ma perché abbiano successo occorre rafforzare i servizi di prossimità, professionalizzare il lavoro di cura e considerare gli anziani non autosufficienti come attori economici che generano domanda di beni e servizi qualificati, e non semplici percettori di sussidi.
Tecnologia e cura: leve di sviluppo e coesione
La relazione di Natale Forlani sottolinea come l’innovazione tecnologica rappresenti un moltiplicatore decisivo sia per la produttività, sia per la qualità della vita. Automazione, intelligenza artificiale e digitalizzazione dei processi amministrativi possono liberare capitale umano, incrementare i salari e generare gettito fiscale, ma richiedono investimenti mirati in competenze e infrastrutture. Al contempo, l’impiego di piattaforme digitali nei servizi di assistenza consente di monitorare a distanza la salute degli anziani e di ottimizzare gli interventi domiciliari. Solo così la crescita del valore aggiunto potrà finanziare un sistema di protezione sociale più esteso, mantenendo al contempo competitivo il tessuto produttivo nazionale.
La stessa sfera della cura, tradizionalmente percepita come voce di costo, si trasforma in motore di sviluppo se accompagnata da standard formativi, tutele contrattuali e modelli organizzativi innovativi. Nuovi profili professionali – assistenti domiciliari specializzati, coordinatori di servizi di comunità, tecnici della telemedicina – possono creare opportunità di lavoro qualificato per giovani e donne, contribuendo a rigenerare la base contributiva. Investire nel caring significa quindi non solo rispondere a bisogni sociali crescenti, ma anche alimentare un’industria capace di generare valore economico e coesione territoriale.
