In poche ore il dibattito internazionale sull’uso del paracetamolo in gravidanza è esploso: negli Stati Uniti la Food and Drug Administration avvia la revisione del foglietto illustrativo di Tylenol, mentre scienziati di vari Paesi mettono in guardia da conclusioni affrettate su presunti rischi neurologici nei neonati.
Stati Uniti, la mossa Fda
La decisione dell’agenzia federale americana di intraprendere un processo di aggiornamento delle indicazioni per Tylenol e prodotti analoghi nasce da una serie di studi che, pur non essendo definitivi, suggeriscono un possibile legame tra l’assunzione di paracetamolo durante la gestazione e l’aumento di disturbi neuroevolutivi, quali autismo e Adhd, nei bambini. Con una lettera inviata a tutti i medici del Paese l’ente guidato da Marty Makary ricorda che, finché l’analisi non sarà conclusa, il farmaco resta in commercio ma raccomanda ai clinici di discuterne l’uso con le pazienti. L’obiettivo, spiegano dalla Fda, è garantire che l’informazione sui potenziali rischi arrivi in tempo reale ai professionisti sanitari e alle famiglie, così da consentire scelte consapevoli basate sui dati più aggiornati.
Nel documento ufficiale lo stesso Makary sottolinea che il paracetamolo continua a rappresentare l’opzione di riferimento quando la febbre materna può mettere in pericolo il feto; tuttavia invita a valutare con prudenza i casi di lievi rialzi termici, spesso gestibili senza terapia. «Il principio di precauzione», afferma, «potrebbe indurre molte donne a rinunciare all’antipiretico se il beneficio non è evidente». La scelta finale rimane nelle mani dei genitori, ma l’agenzia ritiene indispensabile che la futura madre sia pienamente informata sui pro e contro di ogni decisione. L’approccio, spiegano gli esperti statunitensi, non vuole demonizzare il medicinale; punta piuttosto a rafforzare una cultura di condivisione del rischio che tenga conto delle peculiarità di ogni gravidanza.
Cosa dicono le ricerche sull’esposizione prenatale
Negli ultimi anni si è accumulata una mole di letteratura che esamina l’esposizione prenatale al paracetamolo, con risultati talvolta contraddittori. Diversi lavori osservazionali segnalano un incremento statistico di diagnosi di autismo o di deficit di attenzione quando il farmaco viene assunto per periodi prolungati o ripetuti durante tutti i trimestri di gravidanza. In particolare, alcuni autori ipotizzano che l’effetto possa essere più marcato in caso di uso cronico, scenario non insolito per le donne che ricorrono all’antidolorifico per gestire emicranie o dolori muscolari. Tuttavia la maggior parte degli studiosi riconosce che un’associazione non equivale a causalità, poiché fattori confondenti – dal patrimonio genetico alle condizioni socio-economiche – possono influenzare i risultati.
Altre analisi, condotte con metodologie differenti, non hanno riscontrato correlazioni significative oppure hanno evidenziato limiti nei campioni, nelle misurazioni della dose o nella durata del follow-up. Per questo motivo le principali società mediche continuano a indicare il paracetamolo come l’unico antipiretico da banco consigliato in gravidanza: la presenza di febbre elevata, spiegano, può a sua volta comportare complicazioni severe per lo sviluppo fetale. Aspirina e ibuprofene, prodotti spesso usati dagli adulti, sono infatti associati a effetti collaterali documentati sull’apparato cardiovascolare del nascituro. Il nodo, dunque, non è scegliere se curarsi o meno, ma calibrare durata e dosaggio, monitorando con il medico l’andamento di ogni episodio febbrile oppure doloroso.
Lo scontro scientifico alimentato da Donald Trump
La discussione è diventata rapidamente incendiaria quando l’ex presidente Donald Trump ha collegato pubblicamente l’uso del paracetamolo in gravidanza all’insorgenza di autismo. Le sue affermazioni hanno immediatamente sollevato critiche da parte della comunità scientifica, preoccupata per l’eco che tali parole possono avere su milioni di famiglie. Arthur Caplan, direttore della Division of Medical Ethics della New York University School of Medicine, ha parlato della dichiarazione come della «più triste dimostrazione di mancanza di prove», accusando l’ex inquilino della Casa Bianca di riciclare miti smentiti e di fornire consigli potenzialmente pericolosi alle donne incinte. Caplan ha bollato l’intervento come un esempio di pessima gestione della salute pubblica, destinato a confondere anziché chiarire.
In un commento diffuso alla stampa, lo studioso ha rincarato: «Ciò che è stato detto non solo è privo di riscontri, ma rappresenta una forma di malpractice verso la protezione della vita fetale». Le parole di Trump sono giunte, peraltro, in contemporanea alla sua scelta di esaltare il Leucovorin – un derivato dell’acido folinico – come ipotetica cura per i disturbi dello spettro autistico, ipotesi che la letteratura cita solo in primi studi preliminari. L’intreccio tra politica e scienza, secondo numerosi ricercatori, rischia di generare decisioni dettate dalla paura più che da valutazioni razionali dei rischi, con conseguenze concrete sulla gestione della gravidanza e sull’accesso a terapie validate per i bambini già diagnosticati.
Il dibattito si sposta oltre oceano
In Europa, e in particolare in Italia, la vicenda statunitense ha innescato un acceso confronto tra esperti di salute pubblica. L’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, docente di Igiene, ha messo in guardia dal pericolo di «avventurarsi in territori scientifici complessi con gli stivali della politica». Secondo lo specialista, la discussione sul possibile legame tra paracetamolo, autismi e sull’eventuale efficacia del Leucovorin deve rimanere confinata nelle aule di ricerca, dove i dati vengono esaminati con rigore e cautela. «Quando la politica entra a mani basse nel dibattito scientifico», ha puntualizzato, «può solo fare danni, alimentando timori ingiustificati e speranze infondate».
Lopalco teme che l’attuale sovraesposizione mediatica finisca per generare una confusione diffusa tra le famiglie con figli nello spettro autistico, mettendo in secondo piano percorsi di assistenza e inclusione costruiti con anni di lavoro sul territorio. Gli studiosi europei, pur riconoscendo la necessità di ulteriori indagini, ricordano che le evidenze disponibili restano «deboli e preliminari» e non giustificano rivoluzioni terapeutiche o sospensioni indiscriminate del paracetamolo. In un contesto già segnato da disinformazione, spiegano, amplificare ipotesi non confermate rischia di destabilizzare la fiducia nei programmi di salute materno-infantile e di compromettere scelte che dovrebbero essere il risultato di un dialogo sereno tra medico e paziente, privo di interferenze ideologiche.
Posizione ufficiale dell’Europa
Dinanzi al clamore suscitato dalle notizie provenienti dagli Stati Uniti, l’Agenzia europea per i medicinali ha diffuso una nota per ribadire che, nell’Unione europea, non cambia alcuna raccomandazione sull’impiego di paracetamolo in gravidanza. L’ente regolatorio sottolinea che i medicinali a base di questa molecola possono continuare a essere utilizzati secondo le indicazioni in vigore, che già prevedono dosi minime efficaci e la consultazione del medico in caso di necessità prolungate. La valutazione dei rapporti beneficio-rischio, afferma l’Ema, resta favorevole.
Gli esperti europei spiegano che il sistema di farmacovigilanza continentale monitora costantemente le segnalazioni di possibili eventi avversi e che, allo stato attuale, i dati raccolti non indicano motivi per aggiornare le etichette dei prodotti. I funzionari invitano comunque le donne incinte a non assumere decisioni autonome, ma a confrontarsi con ginecologi e medici di famiglia, specie quando la febbre è elevata o persistente. Allo stesso tempo viene ricordato che alternative comuni, come i farmaci antinfiammatori non steroidei, presentano rischi noti per il feto, rendendo il paracetamolo, se impiegato correttamente, il trattamento di prima scelta. Vigilanza, accompagnamento informato e prudenza rimangono le parole d’ordine condivise su entrambe le sponde dell’Atlantico.
