Nel panorama industriale italiano, l’Intelligenza Artificiale avanza con decisione, ma la distanza fra entusiasmo e reale preparazione resta evidente. Un recente studio curato da LHH evidenzia come l’adozione tecnologica superi ormai la media globale, pur lasciando scoperta la capacità di affrontare il domani.
Una diffusione significativa, ma incompleta
La rilevazione intitolata “Guidare il cambiamento nell’era dell’IA: aspettative vs realtà” ha intercettato una tendenza chiara: il 67 % delle imprese con sede in Italia utilizza già soluzioni di analisi dei dati e automazione per la pianificazione strategica del personale. È una quota che, a sorpresa, supera di sei punti la media registrata a livello mondiale, attestata al 61 %. L’utilizzo dell’AI, spiegano i ricercatori, non si limita a compiti marginali; al contrario, garantisce un supporto immediato alle decisioni più delicate, soprattutto quando occorre ridefinire organici, individuare ruoli critici e compensare carenze di personale specializzato.
Secondo il medesimo rapporto, quasi uno su due dirigenti — esattamente il 49 % — dichiara di ricavare benefici concreti dall’Intelligenza Artificiale nel processo decisionale quotidiano. Questo vantaggio si manifesta, ad esempio, nel ridurre i tempi di reazione su tematiche urgenti, fattore che ancora oggi penalizza la metà delle organizzazioni, come evidenziato da un 50 % di rispondenti. Un contributo altrettanto significativo riguarda la gestione dell’ormai cronica skills shortage: per il 40 % delle imprese, i modelli di machine learning consentono di individuare percorsi di riqualificazione interni e di prevedere, con maggior precisione, quali competenze ricercare sul mercato.
Definizione e realtà delle imprese davvero pronte al futuro
La stessa analisi introduce un criterio stringente per classificare un’organizzazione come “future proof”. Secondo LHH, possono fregiarsi di questo titolo soltanto le aziende che coltivano una cultura di costante adattabilità, promuovono programmi di upskilling, incentivano la mobilità interna e considerano le tecnologie emergenti semplici abilitatori, non fini a sé stesse. Quando questi parametri vengono incrociati con le risposte del campione italiano, la situazione si fa meno rassicurante: appena il 15 %, vale a dire una realtà ogni sette, soddisfa tutti i requisiti per sostenere le trasformazioni che si profilano all’orizzonte.
Il divario tra uso diffuso dell’AI e maturità organizzativa non è semplice da colmare. Molte imprese, pur avendo introdotto software avanzati e dashboard predittive, si trovano a gestire processi interni ancora ancorati a schemi rigidi. L’assenza di percorsi strutturati di sviluppo professionale, unitamente alla scarsa integrazione fra reparti IT e funzioni HR, rallenta l’assorbimento delle novità e alimenta la resistenza al cambiamento. Ciò si traduce nella difficoltà a trasformare i numeri positivi sull’adozione in un vantaggio competitivo duraturo e, soprattutto, condiviso da tutto l’organico.
La formazione come acceleratore strategico
I dati raccolti da LHH indicano che il 59 % delle organizzazioni italiane ha già messo in campo programmi di formazione focalizzati su competenze digitali e tecnologiche. Si tratta di un passo rilevante, ma ancora insufficiente se l’obiettivo è costruire un ecosistema in cui ogni professionista possa dialogare con algoritmi e piattaforme in modo consapevole. Investire in corsi on-the-job, laboratori di sperimentazione e percorsi di mentoring diventa, quindi, l’unico modo per ridurre l’asimmetria di conoscenza fra leadership e livelli operativi, evitando che l’innovazione resti confinata a poche figure chiave.
A rafforzare l’urgenza interviene la rapidità con cui evolvono gli strumenti di Intelligenza Artificiale stessi. Le piattaforme di ultima generazione rinnovano funzioni, interfacce e modelli di licensing in tempi sempre più stretti, obbligando chi le utilizza ad aggiornarsi in continuo. Un’azione formativa isolata non basta; servono micro-learning ricorrenti, community interne in cui condividere best practice e, soprattutto, la capacità di misurare l’impatto del learning sui risultati di business. Senza queste leve, l’adozione rischia di trasformarsi da opportunità ad elemento di frustrazione per i dipendenti.
L’intervento di Luca Semeraro e l’avvertimento al mercato
Nel commentare i dati, Luca Semeraro, Country President Italy e SVP Recruitment Solutions di LHH, ha richiamato la necessità di un approccio olistico che metta al centro il capitale umano. A suo avviso, l’evoluzione socio-economica e tecnologica non concede più alibi: considerare la formazione sulla machine intelligence come un’opzione è un errore strategico che le realtà più lungimiranti non possono permettersi. Il manager fa notare come la velocità delle trasformazioni imponga di combinare visione a lungo termine e rapidità operativa, pena l’esclusione dai tavoli decisionali che contano.
Il suo monito si traduce in un messaggio netto alle aziende ancora esitanti: senza competenze aggiornate, l’intelligenza artificiale non diventa alleata ma fattore di disorientamento. Per restare competitivi serve investire, programmare e misurare nuovi schemi di apprendimento che abbraccino tutta la forza lavoro. Solo così sarà possibile trasformare la spinta iniziale dei progetti AI in un vantaggio misurabile, consolidando una cultura aziendale pronta a rispondere alle continue accelerazioni del mercato globale e riducendo, al contempo, i rischi di diventare meri osservatori di un panorama che corre veloce.
