La rinnovata esplosione di cori offensivi contro i napoletani, riecheggiata a Pontida, induce Enrico Ditto a un richiamo severo: in questo frangente storico liquidare gli slogan come semplice goliardia significa alimentare divisioni che minano la coesione democratica dell’intero Paese e avvelenano il futuro dei più giovani.
Un clima che si ripete, ma con contorni diversi
Il raduno di Pontida non è nuovo a toni accesi, eppure, come sottolinea Ditto, l’edizione odierna assume una coloritura particolare. Nel momento in cui il Paese affronta sfide economiche e sociali inedite, rivedere il “classico e inguardabile teatrino delle parti” appare, a suo dire, quasi un disturbo bipolare collettivo: da un lato la base che intona cori contro Napoli, dall’altro i dirigenti che salgono sul palco alla ricerca di fiducia elettorale. Il paradosso, spiega l’imprenditore campano, è che la contraddizione non nasce in periferia, bensì nel cuore della maggioranza di governo, incapace di condannare senza riserve quella violenza verbale che, invece, prova a scaricare su un’unica parte politica.
Il secondo elemento che rende la vicenda più grave degli anni scorsi è il contesto istituzionale. Lega, partito organizzatore, siede oggi nelle stanze dell’esecutivo: ciò implica, argomenta Ditto, una responsabilità pubblica ben diversa rispetto al passato. Archiviare gli insulti come semplici sfottò da stadio non è più un’opzione: le parole di una folla possono riflettersi nelle scelte di governo, influenzare la percezione collettiva e legittimare un linguaggio discriminatorio che, a lungo andare, diventa terreno fertile per forme di intolleranza più radicali.
Parole che educano: un dovere civile
A detta del responsabile Formazione e lavoro di Azione in Campania, occorre sgombrare il campo da ogni calcolo di consenso e rimettere al centro il “buon senso”. Un’educazione alle parole, sostiene, non è un lusso ma un prerequisito: senza di essa non nascerà mai una classe di cittadini capace di superare gli errori di quella attuale. Alla base di una sana dialettica democratica vi sono educazione, confronto e rispetto; valori che, se rimossi, lasciano spazio a polarizzazioni tossiche. Perciò, ammonisce Ditto, chi governa non può più permettersi il lusso di relativizzare l’offesa, sminuendone la portata, perché ciò significa addestrare le nuove generazioni a considerare la discriminazione un passatempo innocuo.
Pensare che il problema si possa “collocare altrove” rappresenta, nella visione dell’imprenditore, una negazione poco lungimirante. Invece di additare il fenomeno come un vizio altrui, serve riconoscerlo come responsabilità collettiva. L’esempio più lampante è la stessa base leghista che, gridando di «eruttare il Vesuvio», dimentica che quei voti e quella fiducia richiesti dal palco provengono anche dalle terre che si insultano. Ditto insiste: o si affronta di petto la questione oppure la politica continuerà a inseguire un consenso effimero, sacrificando su quell’altare il rispetto reciproco che regge la democrazia.
La richiesta di un segnale istituzionale
Nelle stesse ore in cui a Pontida risuonano cori divisivi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si trova a Napoli per l’apertura dell’anno scolastico. Ditto affida dunque alle parole del Capo dello Stato l’auspicio di un argine netto a questo crescendo di aggressività verbale. Un intervento istituzionale chiaro, sottolinea, aiuterebbe a ristabilire il nesso tra libertà di espressione e responsabilità civica, ricordando che la prima decade senza la seconda. Se persino la massima carica della Repubblica richiamasse l’intero Paese a una maggiore sobrietà linguistica, l’appello potrebbe suonare più forte di qualsivoglia slogan elettorale.
In conclusione, l’imprenditore campano ribadisce che la vicenda non ha un colore politico definito: riguarda il «futuro che stiamo sottraendo ai nostri ragazzi». La battaglia, osserva, non si gioca su un campo di appartenenza ma sul terreno comune del rispetto reciproco. Se la politica non accetta di rivedere priorità e toni, la società rischia di abituarsi a una violenza verbale normalizzata, con conseguenze non solo sulle urne, bensì sul tessuto stesso della convivenza civile.
