Dentro l’aria rarefatta dei bombardamenti, dieci voci palestinesi trasformano l’angoscia in versi. “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza” raccoglie trentadue liriche nate fra case distrutte, campi profughi e fughe improvvise. Parole composte per resistere, pronunciate spesso nell’istante in cui la vita si affievolisce.
La poesia come ultima difesa
Dal 7 ottobre 2023 la Striscia di Gaza è stata riscritta dalle esplosioni e dalla polvere, ma nel cuore del caos dieci giovani autori hanno tenuto in mano penne e telefoni invece di tacere. Le loro liriche sono state scolpite mentre i razzi spazzavano i tetti, poco prima che Abu Nada e Alareer fossero travolti dalle bombe, durante la fuga disperata di al-Ghazali, dentro le tende gelide che imprigionano Elqedra e la sua gente. Scrivere è diventato lo spazio minimo di libertà, un respiro prolungato oltre la corsa dei droni, e la raccolta registra quell’ultimo battito.
Ogni verso nasce in un contesto di estrema precarietà: luce elettrica intermittente, connessioni destinate a cadere, quaderni e matite recuperati sotto le macerie. Il loro grido è la mia voce non propone quindi un semplice canzoniere, ma l’affiorare di una comunità che rifiuta l’annientamento. Queste pagine somigliano a mappe tracciate su un terreno che muta di ora in ora; niente è fisso, eccetto la volontà di testimoniare. L’atto di comporre diventa un gesto quotidiano di sopravvivenza, come cercare acqua, come proteggere i bambini dai vetri infranti.
L’eco oltre le macerie e l’interrogativo consegnato al lettore
Nel testo introduttivo, lo storico israeliano Ilan Pappé riconosce che, in mezzo a ciò che definisce senza esitazioni un genocidio, l’inchiostro continua a ricoprire un ruolo cruciale. Egli osserva come la consapevolezza di poter morire «ogni ora» conviva con un senso di dignità che nessuna devastazione riesce a cancellare. Nelle pagine l’umanità resiste, nonostante il boato dei missili, come una fiamma silenziosa. Pappé mette in evidenza l’alternanza tra versi taglienti e immagini allegoriche, tra frasi brevissime e percorsi più sinuosi, tutti comunque attraversati da un imperativo vitale.
Alle considerazioni di Pappé fanno eco le parole di Nabil Bey Salameh, che ha curato la traduzione con la precisione di chi ascolta prima di parlare. Nelle sue pagine introduttive descrive il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini, il canto degli ulivi: suoni che, trasposti in italiano, mantengono l’odore della sabbia di Gaza. L’invito che rivolge ai lettori è chiaro: vedere, udire, respirare insieme ai poeti, concedere loro l’ospitalità di un momento di attenzione autentica. Non è un lamento, sostiene, ma un gesto d’amore verso la libertà.
Letteratura, impegno e solidarietà concreta
La raccolta è arricchita dagli interventi della scrittrice e attivista Susan Abulhawa e del giornalista statunitense Chris Hedges. La prima, figlia di una famiglia costretta all’esilio dopo il 1967, intreccia nelle sue pagine la propria storia di sradicamento con quella dei poeti; il secondo allarga l’orizzonte al diritto internazionale e al dovere della testimonianza. Insieme offrono uno sguardo che unisce il vissuto personale alla cronaca, trasformando il volume in un ponte tra mondi che spesso non dialogano. Le loro voci incorniciano i versi, amplificandone la portata etica.
Anche l’editore sceglie di trasformare le parole in azione: per ogni copia venduta, Fazi Editore destinerà cinque euro a Emergency, impegnata sul campo con cure mediche nella Striscia. Il gesto di solidarietà prolungherà la vita dei versi oltre la carta, collegandoli a ospedali da campo, ambulanze, chirurghi che lavorano senza sosta. È la dimostrazione che la letteratura non si esaurisce nella contemplazione, ma può partecipare alla riparazione di ciò che è stato spezzato. Chi sceglierà di leggere non resterà semplice spettatore.
