Un inatteso fronte diplomatico si è aperto quando quattro Paesi tradizionalmente vicini a Israele – Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo – hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, rilanciando un tema che sembrava sopito e innescando reazioni opposte tra governi occidentali, leadership israeliane e rappresentanze palestinesi.
Momenti decisivi
La decisione congiunta di Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo rompe una lunga impasse diplomatica: per la prima volta quattro nazioni del blocco anglofono più un partner europeo si allineano nello stesso giorno a favore della piena statualità palestinese. Il primo ministro britannico Keir Starmer, in un video di sei minuti, ha presentato il passaggio come il modo più concreto per ravvivare la prospettiva di due Stati e per dimostrare, a israeliani e palestinesi, che la convivenza rimane possibile. Analoghe dichiarazioni sono arrivate dal canadese Mark Carney e dall’australiano Anthony Albanese, entrambi decisi a legare il riconoscimento a impegni di riforma e sicurezza.
L’annuncio ha innescato una contrapposizione immediata con Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano ha parlato di una «ricompensa enorme al terrorismo», promettendo di opporsi in ogni sede internazionale a quella che definisce un’ipoteca esistenziale sul futuro di Israele. Il governo israeliano – attraverso il Ministero degli Esteri – sostiene che un riconoscimento privo di negoziato bilaterale possa destabilizzare ulteriormente la regione, mentre il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir preme per «contromisure» immediate, fra cui l’annessione integrale della Cisgiordania e lo smantellamento dell’Autorità palestinese. Le due narrative, lontane, delineano l’entità dello scontro politico che attende l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nei prossimi giorni.
Origine della svolta diplomatica
La scelta dei quattro governi non nasce nel vuoto. Da mesi la prospettiva dei due Stati sembrava affievolirsi, complice l’escalation militare nella Striscia di Gaza, l’avanzare degli insediamenti in Cisgiordania e la paralisi negoziale. Proprio queste circostanze, secondo Starmer, rendono urgente un gesto che «non sia una ricompensa per Hamas», ma un incentivo alla moderazione. Il leader britannico ha infatti ricordato che Hamas resta un’organizzazione sanzionata a Londra, e ha incaricato il Tesoro di ampliare le misure punitive nelle prossime settimane: una catena di causa–effetto che dovrebbe, nelle intenzioni, separare il consenso internazionale verso Ramallah dall’influenza militare di Gaza.
In Canada e in Australia il ragionamento segue un percorso simile ma mette l’accento su riforme interne. Il premier canadese Mark Carney ha offerto «partnership piena» a un futuro governo palestinese, purché affronti in modo trasparente finanze e governance. Dall’altro lato dell’emisfero, Anthony Albanese ha insistito sulle garanzie ricevute dall’Autorità nazionale palestinese circa il riconoscimento del diritto di Israele a esistere, l’impegno a elezioni democratiche e la revisione dei curricula scolastici. In entrambi i casi, il riconoscimento non è presentato come un punto di arrivo, bensì come leva per stimolare riforme che i due esecutivi reputano indispensabili alla stabilità futura.
Le conseguenze in gioco
Le autorità palestinesi leggono la svolta come il tassello che mancava per rafforzare la spinta all’indipendenza. La ministra per gli Affari esteri Varsen Aghabekian Shahin ha definito il riconoscimento «passo pratico, tangibile e irreversibile», sottolineando che consolida l’unica strada ancora aperta verso la sovranità. Secondo la sua analisi, il gesto occidentale costringerà Israele a misurarsi con pressioni politiche che potrebbero tradursi in leve economiche, non appena i partner attivano i rispettivi regimi sanzionatori. Per la popolazione di Gaza e Cisgiordania, questa dinamica dovrebbe significare – nelle intenzioni – un flusso maggiore di aiuti e una tutela diplomatica più salda.
Dall’altra parte, il governo israeliano mette in guardia su ciò che ritiene l’effetto opposto: secondo Netanyahu, creare uno Stato palestinese «a ovest del Giordano» equivarrebbe a posizionare una minaccia armata nel cuore del Paese. Il premier fa risalire la sua fermezza ad anni di pressioni, interne e internazionali, arginando l’ipotesi con una strategia che ha incluso il raddoppio degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria. Se questo scenario dovesse proseguire, avverte il Ministero degli Esteri, le possibilità di un dialogo negoziale si ridurrebbero ulteriormente, con ricadute dirette sulla sicurezza dei civili e sulla stabilità regionale.
Attori, luoghi e scadenze
Il riconoscimento britannico è stato annunciato con un post sulla piattaforma X, accompagnato dal video di Starmer; poche ore più tardi Carney ha formalizzato la posizione canadese, seguito dal comunicato diffuso da Canberra. Al momento non è stato fissato un calendario preciso per lo scambio di ambasciatori né per l’apertura di missioni diplomatiche: i governi parlano genericamente di «prossime settimane», lasciando dunque un margine di incertezza sulle procedure concrete e sulle tempistiche operative. La mancanza di dettagli riguarda anche il livello di rappresentanza consolare previsto nelle nuove sedi.
Israele prepara invece la propria agenda: la prossima riunione di governo, convocata entro pochi giorni, dovrà discutere le «contromisure» proposte da Ben-Gvir. Verrà anche definito il mandato della delegazione che accompagnerà Netanyahu all’Assemblea Generale dell’ONU, dove il premier intende ribadire che «l’esistenza di Israele non è negoziabile». Nel frattempo, i funzionari del Ministero degli Esteri israeliano hanno diramato note verbali alle cancellerie europee per scoraggiare ulteriori riconoscimenti unilaterali. Non è stato comunicato se e quando il tema passerà al Consiglio di Sicurezza, dettaglio fondamentale per capire i futuri passaggi istituzionali.
Voci e prospettive dal terreno
Il movimento Hamas ha accolto la decisione con toni di vittoria, definendola «riconoscimento dei diritti nazionali che l’occupazione non potrà cancellare». L’esponente Mahmoud Mardawi ha sottolineato che il messaggio è chiaro: per quanto Israele intensifichi le operazioni militari, non potrà alterare la legittimità delle rivendicazioni palestinesi. Dal punto di vista comunicativo, questo discorso rafforza la narrativa di resistenza, proprio mentre Gaza subisce bombardamenti e la popolazione civile affronta crisi umanitaria. Il rischio, evidenziato dagli analisti, è che il riconoscimento diventi strumento di propaganda per le ali più dure, alimentando aspettative difficili da tradurre in risultati immediati sul campo.
Più istituzionale il tono dell’Autorità nazionale palestinese, che attraverso Mahmoud Abbas ha definito la decisione «passo verso una pace giusta e duratura». Sebbene il riconoscimento non plachi le armi nell’immediato, a Ramallah lo interpretano come segnale di legittimità internazionale, utile a rafforzare la loro posizione nei futuri negoziati e a ottenere sostegno economico per le riforme richieste. Allo stesso tempo, permane un nodo irrisolto: l’unità politica tra Cisgiordania e Striscia di Gaza, indispensabile per dare sostanza alla nuova statualità. Finché questo tema resterà aperto, osservano i diplomatici, ogni progresso rischia di arenarsi in divisioni interne e in pressioni esterne contrapposte.
