La linea di tendenza che emerge dalle ultime rilevazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità non concede tregua: l’ondata di colera iniziata negli scorsi anni ha accelerato, trasformandosi in un’emergenza sanitaria che attraversa Paesi e continenti, minando comunità fragili e mettendo alla prova le capacità di risposta di governi e organizzazioni internazionali.
Un bilancio che peggiora
Le cifre pubblicate per il 2024 delineano l’aumento più marcato degli ultimi anni: oltre 6.000 vittime, pari a un incremento del 50% rispetto all’anno precedente, mentre i casi conclamati sono saliti di un ulteriore 5%. L’Oms sottolinea che si tratta di stime parziali, perché molti focolai restano al di fuori dei sistemi di sorveglianza e la malattia, benché prevenibile e curabile, continua a colpire aree dove segnalare un contagio è un lusso. È il secondo esercizio consecutivo in cui il numero dei decessi supera quello dell’anno prima, confermando un trend in rapida escalation.
Il peggioramento non si è arrestato con il cambio di calendario: già nei primi mesi del 2025, 31 Paesi hanno notificato nuovi eventi epidemici, segnale che la catena di trasmissione resta viva e diffusa. Di fronte a questa persistenza, l’agenzia sanitaria delle Nazioni Unite definisce il rischio globale «molto elevato», un livello che impone procedure rapide di contenimento, dispiegamento di risorse sanitarie e un monitoraggio serrato delle forniture essenziali. La preoccupazione maggiore riguarda le comunità più vulnerabili, dove l’acqua sicura e i servizi igienici continuano a essere un obiettivo lontano.
Cause strutturali e fattori scatenanti
L’escalation non può essere spiegata soltanto con l’aggressività del Vibrio cholerae; a pesare sono un intreccio di ragioni strutturali che si alimentano a vicenda. Conflitti armati che impediscono la manutenzione delle reti idriche, eventi climatici estremi sempre più frequenti, migrazioni forzate che concentrano migliaia di persone in aree prive di servizi, e investimenti arrestati da decenni nella gestione dell’acqua e dei rifiuti formano un quadro esplosivo. In questo contesto, l’acqua contaminata da feci diventa veicolo di contagio in tempi rapidissimi, anche perché la carenza di infrastrutture igienico-sanitarie rende vano qualsiasi sforzo di prevenzione domestica. Nel 2024, 60 Stati – rispetto ai 45 dell’anno precedente – hanno segnalato episodi di colera, una diffusione geografica che racchiude il 98% dei casi nel triangolo Africa-Medio Oriente-Asia.
Alle cause già note si affianca la capacità del batterio di riemergere dove sembrava sconfitto. Dodici nazioni hanno varcato per la prima volta la soglia dei 10.000 contagi in un solo anno e, tra di esse, sette si sono trovate ad affrontare epidemie di vasta scala senza precedenti. Emblematico il caso delle Comore, che non registravano positività da oltre quindici anni: il ritorno del colera nell’arcipelago evidenzia quanto sia fragile la barriera sanitaria, anche dopo periodi prolungati di assenza di casi. L’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea che ogni riaccensione dimostra la facilità con cui i focolai possono varcare confini nazionali e rilanciarsi lungo le rotte migratorie, soprattutto in zone costiere densamente popolate.
Aree più colpite e nuove recrudescenze
Se si osserva la mappa dei contagi, il continente africano rimane l’epicentro epidemiologico, mentre Medio Oriente e Asia sono attraversati da focolai multiformi che spesso si alimentano a vicenda attraverso corridoi commerciali e movimenti di popolazione. Queste tre aree concentrano quasi la totalità dei casi denunciati nel 2024, un dato che evidenzia quanto lo squilibrio nell’accesso a risorse idriche sicure continui a condizionare la distribuzione geografica della malattia. La diffusione, tuttavia, non è omogenea: alcune nazioni hanno saputo contenere gli episodi con risposte tempestive, altre sono state travolte da moltitudini di pazienti e infrastrutture sature.
Nel solo Africa subsahariana il tasso di letalità è balzato dall’1,4% del 2023 all’1,9% del 2024, segnalando il divario nella capacità di fornire terapie reidratanti, antibiotici e assistenza di supporto. Preoccupa in particolare il fatto che un quarto dei decessi si verifichi lontano dalle strutture sanitarie, sintomo di territori remoti, trasferimenti complessi e, soprattutto, di una sfiducia che spinge intere famiglie a curarsi autonomamente. Questo fenomeno rende difficile tracciare l’evoluzione delle epidemie e complica l’organizzazione di squadre mobili, poiché i pazienti arrivano tardi o non arrivano affatto nei centri di trattamento predisposti dalle autorità sanitarie.
Un accesso alle cure ancora limitato
La carenza di personale formato e di presidi essenziali trasforma ogni aumento di casi in una corsa contro il tempo. Dove gli ospedali sono pochi e distanti, l’idratazione endovenosa e i sali orali diventano beni scarsi, e la mortalità cresce in modo proporzionale alla distanza dalle principali vie di comunicazione. Organizzazione mondiale della sanità e partner internazionali stanno intensificando la distribuzione di kit per la gestione rapida dei pazienti, ma il successo di queste operazioni dipende anche da reti di comunità capaci di riconoscere i sintomi e allertare tempestivamente i referenti sanitari. Senza un coinvolgimento diretto delle popolazioni locali, nessuna strategia di risposta può dirsi realmente sostenibile.
In parallelo, il team di emergenza dell’Oms ha classificato la situazione del colera come priorità assoluta, organizzando missioni sul campo, formazione sul triage e fornitura di soluzioni idro-saline a basso costo. Tuttavia, la logistica resta un punto debole: permessi di ingresso, sicurezza delle strade e disponibilità di carburante possono rallentare l’invio di equipaggiamento vitale. Le linee guida internazionali insistono sull’allestimento di aree di trattamento separate per evitare ulteriori contaminazioni e sul potenziamento della sorveglianza laboratoristica, indispensabile per differenziare il colera da altre infezioni gastrointestinali. Ogni ritardo, fosse anche di poche ore, si traduce in vite perdute o in contagi che raddoppiano.
La risposta internazionale e la questione dei vaccini
Parallelamente agli interventi clinici, l’Organizzazione mondiale della sanità richiama governi e donatori a investire in infrastrutture idriche, educazione alla salute e sorveglianza. Il pilastro preventivo resta il vaccino orale: un nuovo preparato, prequalificato all’inizio del 2024, è entrato nelle scorte globali e ha mantenuto le riserve sopra la soglia di 5 milioni di dosi per i primi sei mesi del 2025. A causa dell’elevata domanda, il protocollo d’emergenza a dose unica – adottato per ridurre la pressione sugli stock – è rimasto in vigore per tutto il 2024 e continua nell’anno in corso.
Le richieste inviate alle scorte internazionali nel 2024 hanno sfiorato 61 milioni di dosi, ma solo 40 milioni sono state approvate per campagne di immunizzazione reattiva in 16 Paesi. Gli esperti temono che il divario tra disponibilità e bisogni rimanga amplio anche nel 2025, specie se le epidemie dovessero espandersi in aree urbane densamente popolate. Di qui l’appello ad ampliare la capacità produttiva e a sostenere la ricerca, affinché la distribuzione del vaccino non diventi un collo di bottiglia. Garantire acqua potabile, igiene e profilassi resta la strategia più efficace per spezzare la catena del contagio.
