La dipendenza dal conflitto sta diventando il vero volto dell’economia russa, trascinando il paese in una spirale che sembra rendere la pace un lusso insostenibile. Di fronte a numeri sempre più eloquenti, analisti e governi europei osservano, con crescente inquietudine, la trasformazione del Cremlino in un sistema che vive, produce e spende quasi esclusivamente per la guerra.
Bilancio statale in assetto di guerra
Nei documenti contabili di Mosca la priorità militare non è più un capitolo straordinario, bensì la colonna portante. Oltre la metà dell’intero bilancio civile e federale viene ormai assorbita da forniture, stipendi, munizioni e sussidi legati alla campagna in Ucraina, mentre il restante continua a restringersi. Il dato più inquietante riguarda quel 62 per cento di spesa classificato come segreto, etichetta che annulla ogni possibilità di controllo pubblico e perfino istituzionale. L’ombra che avvolge le uscite di cassa consente al potere di muovere risorse a piacimento, di nascondere le vere perdite e di posticipare, indefinitamente, l’impatto sociale delle scelte belliche, scaricandolo su una cittadinanza già provata da sanzioni e inflazione.
Perfino la stessa Banca Centrale, costretta ad abbassare i tassi al diciassette per cento pur di tenere a bada il rublo, ha ammesso che la nazione sta già operando vicino al limite delle proprie capacità produttive, logistiche e umane. Fabbriche riconvertite in fretta, infrastrutture sforzate oltre il progetto originario e turni di lavoro estenuanti completano un quadro dove l’intero apparato statale è orientato sul fronte. Quando un Paese giunge a esaurire le scorte di capitale fisico e umano per sostenere la macchina bellica, la strada del ripiegamento diventa più ripida di quella che conduce all’escalation.
L’acciaio come cartina di tornasole della non-ritorno
Nulla descrive meglio l’impasse di Putin del destino ormai appeso di Mehel e degli altri giganti della siderurgia. Queste aziende, un tempo fiore all’occhiello dell’export russo, sono ora soffocate da debiti e linee di approvvigionamento interrotte dalle sanzioni. Per evitare la chiusura di impianti che occupano decine di migliaia di persone, i ministeri dell’Economia e dell’Industria valutano un provvedimento estremo: sospendere le procedure fallimentari. In pratica, verrebbe tolto di mezzo il principio base dell’economia di mercato, quello che permette alle imprese inefficienti di uscire di scena. La conseguenza sarebbe un settore sostenuto artificialmente dalla spesa pubblica, dunque ulteriormente legato al complesso militare.
Una misura simile, oltre a rinviare le responsabilità manageriali, costruirebbe un legame ancora più stretto tra produzione di acciaio e domanda di armamenti: le colate destinate alle rotaie o ai cantieri civili verrebbero dirottate verso blindati, proiettili e infrastrutture per il fronte. Abbandonare poi la via bellica implicherebbe riprogrammare macchinari, riconvertire personale specializzato, rifinanziare catene logistiche ormai tarate su standard militari; un’operazione onerosa al punto da risultare impraticabile. Così lo Stato si ritrova ostaggio di ciò che voleva salvare, e l’economia civile resta senza un pilastro fondamentale.
Inflazione, moneta e quotidiano
La tensione prodotta da questo scenario si riflette nella vita di tutti i giorni. A luglio la quantità di contante in circolazione ha toccato il record storico di sedici mila miliardi di rubli: un fiume di banconote che i cittadini preferiscono tenere in casa piuttosto che affidare a conti correnti percepiti come insicuri. L’accumulo compulsivo di liquidità anticipa la sfiducia verso il futuro e alimenta, allo stesso tempo, una dinamica inflazionistica che erode il potere d’acquisto proprio mentre i salari reali subiscono contrazioni costanti.
Il quadro del lavoro non appare più rassicurante. Gli incentivi economici offerti per arruolarsi nell’esercito hanno drenato personale qualificato da manifattura, servizi e agricoltura, lasciando interi distretti industriali a corto di operai e tecnici. Le imprese che non operano per la difesa si trovano a competere con paghe che promettono bonus immediati e, almeno sulla carta, tutele future. Chi resta fuori dall’ingranaggio militare deve rassegnarsi a retribuzioni falcidiate dall’inflazione, alimentando malcontento sociale e, a cascata, nuove pressioni sul già fragile tessuto produttivo.
Allarmi dalla finanza e dalle campagne
Le banche commerciali, finora arruolate nel compito di sostenere il credito alle imprese strategiche, lanciano ora segnali di pericolo. Gli alti tassi decisi per difendere il rublo si trasformano in una zavorra per famiglie e aziende indebitate in valuta nazionale: le rate dei mutui crescono a un ritmo superiore ai salari e molte piccole attività già registrano insolvenze a catena. Il timore di una crisi del debito interno non riguarda soltanto gli istituti di secondo livello, ma minaccia di propagarsi al sistema finanziario nel suo complesso, con effetti amplificati dalla totale assenza di investitori stranieri.
Fuori dai centri finanziari, le campagne offrono un altro termometro della tensione. Le fonti indipendenti parlano di raccolti «disastrosi», complici il costo del carburante, la mancanza di manodopera e l’impossibilità di importare macchinari sostitutivi di quelli logori. I magazzini di stoccaggio si riempiono meno del previsto, mentre le granaglie destinate all’esportazione diminuiscono a vista d’occhio. Se l’agricoltura, tradizionalmente un ammortizzatore sociale nelle fasi di contrazione, inizia a zoppicare, il peso sulle aree urbane rischia di diventare insostenibile, spingendo ulteriori fette di popolazione verso quell’economia informale che il Cremlino fatica a controllare.
Una guerra che divora il futuro
Alla luce di questi elementi, l’ipotesi che Vladimir Putin scelga di prolungare la conflittualità, magari aprendo nuovi fronti, appare più di una scommessa geopolitica: rappresenta la condizione di sopravvivenza dell’attuale assetto di potere. Fermare le ostilità significherebbe affrontare subito gli effetti di un’economia stressata, riconvertire interi comparti industriali e, soprattutto, spiegare alla popolazione perché i sacrifici fatti non si traducano in maggiore benessere. L’aggressione permanente diventa così uno strumento di gestione interna potente, oltre che un mezzo di proiezione esterna.
La pace, al contrario, comporterebbe una spesa immediata e monumentale per riconvertire impianti, coprire fallimenti sospesi, ripagare debiti accumulati e ristabilire canali commerciali con l’estero. Senza quella leva finanziaria garantita dagli ordini militari, lo Stato dovrebbe scegliere fra tagli dolorosi oppure nuove tasse in un momento di già forte esasperazione popolare. Per il Cremlino il sentiero appare chiaro: continuare a combattere permette di procrastinare rese dei conti economiche e politiche che potrebbero minare seriamente la stabilità del regime stesso nel futuro.
