Il confronto fra calcio e coscienza, esploso in questi giorni, ha messo sotto i riflettori la sfida di qualificazione ai Mondiali 2026 fra la Nazionale italiana e quella israeliana, obbligando tifosi, istituzioni sportive e opinione pubblica a interrogarsi sul confine fra dovere sportivo e sensibilità umanitaria.
La discussione che infiamma il Paese
Nel momento in cui il calendario delle qualificazioni ha collocato Italia e Israele nello stesso girone, la polemica è divampata con una rapidità sorprendente. L’8 settembre, allo stadio di Udine, gli Azzurri hanno onorato l’impegno d’andata vincendo 5-4, eppure quel risultato non è bastato a silenziare la domanda che rimbalza da settimane: sia giusto o meno scendere in campo contro una rappresentativa che porta sulle spalle, suo malgrado, il peso di un conflitto che lacera la Striscia di Gaza. Un nutrito fronte di tifosi, associazioni e commentatori ha chiesto apertamente di rinunciare alla gara di ritorno, invocando un gesto di forte valore simbolico in solidarietà con la popolazione palestinese.
Mentre i social moltiplicavano hashtag e appelli, nelle piazze virtuali e reali si intrecciavano argomentazioni etiche, politiche e sportive. C’è chi invoca lo sport come arena neutrale e chi, invece, ritiene impossibile ignorare le bombe che cadono a pochi chilometri dai campi da gioco. Alcune voci influenti hanno ricordato boicottaggi passati in altri contesti internazionali, invitando la FIGC a ripetere il gesto per dare eco alla protesta. Altre, al contrario, hanno sottolineato che sottrarsi alla competizione significherebbe tradire lo spirito del calcio, luogo deputato – almeno in teoria – al dialogo e all’incontro fra popoli avversi.
La risposta istituzionale di Gravina
Di fronte a un dibattito tanto acceso, il presidente federale Gabriele Gravina ha scelto di intervenire ai microfoni di Rai Radio 1, nella trasmissione “Radio anch’io Sport”, per fissare la posizione dell’organismo che governa il pallone italiano. «Siamo cittadini del mondo e abbiamo a cuore la dignità di ogni essere umano», ha chiarito con toni misurati ma decisi. Nel ricordare la sofferenza che travolge i civili in Medio Oriente, in particolare i bambini palestinesi, Gravina ha ribadito la vicinanza della Federazione a chi paga il prezzo più alto di quel conflitto. Al tempo stesso, ha rivendicato la scelta di non sottrarsi alla gara, interpretandola come un dovere regolamentare, sportivo e – paradossalmente – anche etico.
Il numero uno di via Allegri ha spiegato che «rinunciare a giocare, oltre a non alleviare le sofferenze di nessuno, equivarrebbe di fatto ad autoescludersi dal cammino verso il Mondiale 2026». A nulla varrebbe, secondo la sua analisi, l’illusione di una “punizione” all’avversario: la sconfitta a tavolino colpirebbe solo gli Azzurri, regalando a Israele quei punti nella corsa alla qualificazione. Da qui l’impegno a coniugare pieno rispetto dei regolamenti con la realizzazione di concrete iniziative di carattere umanitario, da mettere in campo assieme alla UEFA. Gravina ha anticipato che la Federazione si sta muovendo per destinare aiuti e visibilità alla causa civile, mostrando che il calcio non dimentica le persone dietro i titoli di cronaca.
Conseguenze sportive e qualificazione mondiale
L’aspetto tecnico non è affatto secondario: l’Italia, campione del mondo mancato nelle ultime due edizioni, non può permettersi alcun errore nel girone. Con la vittoria di Udine gli uomini di Gattuso hanno incamerato tre punti preziosi, ma restano altre sfide decisive da affrontare. Un forfait volontario nel match di ritorno, previsto dal calendario internazionale, produrrebbe non solo la sconfitta automatica, ma spalancherebbe alle altre rivali la porta per superare la Nazionale in classifica. Un viaggio verso Stati Uniti, Messico e Canada passerebbe dunque dal rettangolo verde, non dal tavolo delle rivendicazioni politiche. È questa la logica, dura ma ineludibile, richiamata dalla governance federale.
Sull’altro versante, si lavora a un gesto tangibile che vada oltre la retorica. In sinergia con UEFA, la FIGC sta valutando la creazione di fondi e programmi di assistenza da destinare alle vittime civili del conflitto. L’obiettivo è sfruttare la visibilità planetaria del calcio per promuovere solidarietà concreta, trasformando la partita in occasione di raccolta fondi e sensibilizzazione. Gravina ha promesso che saranno gli stessi protagonisti del terreno di gioco a farsi ambasciatori di questo messaggio, consapevoli che un pallone può rotolare anche oltre le linee laterali, toccando coscienze e contribuendo, seppur in minima parte, a lenire il dolore di chi soffre.
Il confine tra etica e competizione
La discussione intorno alla gara con Israele ha messo a nudo una questione irrisolta: fino a che punto lo sport possa restare separato dai drammi geopolitici. Da una parte, l’ideale olimpico che vorrebbe l’arena agonistica impermeabile alle tensioni internazionali; dall’altra, la realtà di un mondo dove le immagini dei bombardamenti scorrono sugli schermi degli stessi spettatori che il sabato esultano per un gol. Tifare non significa, per molti, chiudere gli occhi sugli orrori lontani qualche migliaio di chilometri. Eppure, come ricordano i vertici federali, le regole internazionali impongono di scendere in campo, pena l’esclusione dagli appuntamenti più prestigiosi.
In questo equilibrio fragile, l’Italia cercherà di coniugare agonismo e umanità. La scelta di giocare non viene presentata come un atto di indifferenza, bensì come l’unica via per restare dentro al sistema e provare a incidere da lì sul fronte della solidarietà. Gravina ha invitato tutti a non confondere un match di qualificazione con un atto di legittimazione politica, ribadendo che «la vicinanza alle vittime passa anche attraverso la responsabilità di non abbandonare la competizione». La sfida, dunque, non si consumerà solo sull’erba: continuerà fuori dal campo, nel tentativo di trasformare novanta minuti di gioco in un ponte, seppur fragile, verso chi oggi vede solo macerie.
